Trieste Film Festival 26 – Il taglio del cordone


Erika Rossi e Giuseppe Tedeschi, Francesco Calogero, Maya Vitkova, l'ultimo Zanussi, Bobo Rondelli che canta la Livorno di Piero Ciampi
: il Trieste Film Festival sembra voler continuare a raccontare instancabilmente la resa dei conti con il passato e con le idiosincrasie della Storia, però con uno sguardo nuovo, trasversale e vicino all'immaginario della contemporaneità 

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Una delle clip che anticipano i film del concorso del Festival di Trieste, che chiude i battenti oggi dopo 7 giorni trascorsi tra la Sala Tripcovich e il glorioso Teatro Miela, vede il coro dell'esercito russo eseguire con trasporto e in alta uniforme una versione da musical hollywoodiano di Get Lucky dei Daft Punk, davanti all'iniziale sgomento della platea altrettanto militare, presto sciolto in sorrisi e spalle che si muovono a tempo.
In pochi minuti il video esprime la ricerca portata avanti dalla creatura di Annamaria Percavassi e Fabrizio Grosoli, che davvero quest'anno sembra voler continuare a raccontare i mille volti di una produzione cinematografica, quella dell'Est Europa, instancabilmente impegnata nella resa dei conti con il passato e con le idiosincrasie della propria Storia, però con uno sguardo nuovo, trasversale e vicino all'immaginario della contemporaneità.

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In quest'ottica si muove ad esempio Viktoria di Maya Vitkova, anteprima italiana dritta dall'edizione 2014 del Sundance.
La cineasta di Sofia filma la storia del rapporto complesso e spigolosissimo tra la giovane Boryana, che sognava New York ma si accontentava di poter fuggire a Venezia prima del crollo del Muro, e la figlia Viktoria, “Bambina del Decennio” per la Bulgaria comunista, cresciuta dunque come una piccola divinità da tutto l'apparato istituzionale locale di limousine per andare a scuola e fili diretti per telefonare al Presidente. Uno strazio per la madre che beve Coca Cola nascosta dietro la porta del bagno di casa, tutte queste cerimonie di grossolana autocelebrazione che Vitkova affoga nel grottesco di particolari deformati e ralenti spietati sui patetici rituali patriottici: e il film si fa appunto incrocio azzardato tra il racconto della generazione venuta su nel bel mezzo della caduta dell'Impero, e gli inserti onirici, visionari e pop così cari al festival tenuto a battesimo da Robert Redford, in un eccesso di simbolismo e metafore (Viktoria è nata senza ombelico, slegata dal cordone ombelicale che l'avrebbe dovuta legare alla madre) che però produce immagini di innegabile potenza visiva e costruzione formale.

Indifendibile invece l'ultima fatica di Krzysztof Zanussi, Corpo estraneo, produzione italo-polacca già passata a Toronto che conferma in quello del suo autore, ospite affezionato e ritornante del festival, uno sguardo imbolsito e completamente arrugginito, nonostante l'assurda vicenda imbastita dal film – girandola vecchio stile di fidanzate che entrano in convento per farsi suore e di donne in carriera pronte ad ammazzare anche la madre per vincere una nuova gara d'appalto, mélo di provocazioni giocose che si spingono troppo oltre, tra tentazioni lesbo e derive carcerarie – se avesse davvero spinto le proprie perversioni al punto di ebollizione, avrebbe quantomeno raggiunto il risultato di un thriller erotico morboso e senza pudore. Purtroppo resta invece una confusa parabola metafisica che spreca l'impegno tenace e testardo di tutto il cast.

Di tutt'altra pasta il felice ritorno sul set di un lungometraggio per Francesco Calogero, che porta al Premio Corso Salani il suo Seconda Primavera, “meravigliosamente inadatto e inattuale” come lo ha definito Fabrizio Grosoli dialogando con il regista in coda ad una proiezione calorosa e partecipe.
Un film dal fascino misterioso, in cui Calogero tratta le immagini come se nascondessero sempre un segreto mai svelato, come già ne La gentilezza nel tocco e Metronotte, suggestioni portatrici di una verità nascosta che sfugge all'ordine comune delle cose, appunto delle stagioni, della vita. Il cinema di Calogero si conferma continuo raddoppio sulle apparenze, un raddoppio colto, cinefilo e letterario, da giallo esistenziale il cui enigma rimane accennato, incastrato tra il giardino e le mura di questo set-villa mutante dove il regista fa muovere i suoi personaggi (cast concentratissimo con Claudio Botosso, Desirée Noferini, Nino Frassica, Anita Kravos) come se fossero tutte apparizioni dell’immaginazione del protagonista, del suo tempo e della sua realtà interiori.
In questo senso si muove anche la colonna sonora rarefatta, intima e impressionista, firmata da Sandro Di Stefano per il film. Sui titoli di coda, Di Stefano ha arrangiato una particolare versione della nota "canzone dell'amore perduto" di Fabrizio De André, incisa con la Bulgarian Radio National Symphony Orchestra e cantata da Mario Lavezzi.
Il segno di Corso Salani vive allora in Seconda Primavera nella sua natura di film piccolo e fieramente autarchico nella produzione e nella realizzazione, ma soprattutto per questa zona di confine tra la nostalgia, il passato e qualcosa che forse si è solamente sognato, e che ha preso vita solo sullo schermo.

E’ in ottima salute la compagine italiana passata a Trieste, come conferma anche l’evento speciale de Il viaggio di Marco Cavallo, documentario con cui Erika Rossi, questa volta insieme a Giuseppe Tedeschi, prosegue il suo percorso alla scoperta dell’eredità di Franco Basaglia, già affrontata con sguardo originalissimo nel precedente, sorprendente Trieste racconta Basaglia.
Erika Rossi ha mano felice nell’utilizzo del repertorio e una certa innata leggiadria nel dipingere queste storie drammatiche come perennemente sospese un attimo prima dell’orrore: qui le visite alle strutture degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari d’Italia, al seguito di Peppe Dell’Acqua e della statua di questo enorme cavallo azzurro di legno e cartapesta, costruito da Basaglia insieme agli internati del manicomio di Trieste nel 1973, vengono colte dai due registi in una serie di istantanee di dolorosa indifferenza, tragica distanza dalla realtà in cui il cavallo e il gruppo di sostenitori della chiusura degli OPG sembrano sempre isolati, messi da parte, non considerati per davvero (i milanesi di Piazza Duomo che sembrano letteralmente non vedere il cavallo, i continui intoppi burocratici per proseguire il viaggio del carro, le mura degli OPG che continuano un'esistenza parallela come inconsapevoli di quello che recintano…). Poi, nelle conversazioni in macchina, perennemente in movimento, tra Dell’Acqua e l’editore-produttore Aldo Mazza, vengono fuori le ragioni più profonde del dissenso equino: acuto espediente per evitare voci narranti, o interviste frontali “istituzionali”.

Segue uno stile decisamente inaspettato anche il racconto della vita e dell’arte di Piero Ciampi, poeta, anarchico, musicista, ritratto realizzato da Marco Porotti per il canale tematico Sky Arte, e presentato al festival alla presenza di Bobo Rondelli, l’eclettico cantautore livornese immortalato da Paolo Virzì nell’intenso L’uomo che aveva picchiato la testa. E’ proprio Rondelli a tenere insieme i filmati d’archivio e le testimonianze degli amici musicisti che rievocano la Livorno e la Roma di Piero Ciampi, e degli artisti di oggi che ci si sono ispirati (Tricarico, Bandabardò, Piero Pelù…), con le sue personalissime reinterpretazioni dei classici di Ciampi, intonati voce e chitarra/ukulele in giro per la città, tra i bar, il porto, i luoghi cari a “Piero Litaliano”.
Ne viene fuori l’autentico sentimento che innervava i testi di Ciampi e tutto il dolore con cui venivano cantati: una piccola emozionante sorpresa all’interno della programmazione triestina.

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