TS+FF 2016 – Embers vince il Premio Asteroide. Incontro con gli autori
Il debutto della giovane americana Claire Carré che ha vinto il festival è un’ambiziosa riflessione sull’identità e sulla memoria. Abbiamo intervistato la regista e lo sceneggiatore Charles Spano
Il Premio Asteroide per il miglior lungometraggio internazionale di genere fantastico della 16° edizione del Trieste Science+Fiction Festival è stato assegnato all’opera prima della giovane regista americana Claire Carré, Embers. Ecco la motivazione della giuria internazionale composta dal giornalista e critico cinematografico Mauro Gervasini, dalla programmatrice del FrightFest di Londra, Shelagh Rowan-Legg e dal direttore di MOTELX – International Horror Film Festival di Lisbona, Pedro Souto: “È un film che porta la fantascienza e il fantastico in una nuova direzione. Che pone, pur non volendo fornire risposte ad ogni costo, domande su chi siamo come individui, famiglie, amici e amanti. Su come un solo istante possa bastare a farci comprendere il nostro essere umani. Questo film è un’allegoria senza tempo sul comportamento umano, sull’intensità delle emozioni e sull’incognita del futuro”.
Dopo un’epidemia neurologica globale, alcuni sopravvissuti senza memoria a lungo a e breve termine si ritrovano alla deriva in un mondo che nessuno di loro ricorda: una coppia di presunti fidanzati che si svegliano nello stesso letto e non ricordano chi sono e il perché sono lì, insieme; un brillante professore di fisica che sfrutta le sue doti intellettuali per sopravvivere nel desolato paesaggio post-apocalittico; un bambino, forse muto e orfano – chi può dirlo – che si aggrega a chiunque incontri sulla sua strada, alla disperata ricerca di un genitore assente o dimenticato, fino ad essere preso “in affidamento” dal professore; un giovane aggressivo che non parla mai e compie continuamente atti di teppismo e di violenza, per poi esserne anche vittima. Ci sono, poi, Miranda e suo padre che vivono in un ermetico bunker ultramoderno che li tiene segregati dal mondo ma, dato fondamentale, li mantiene immuni al contagio. Tutte persone che appaiono scaraventate nell’esistenza senza ricordare neppure il proprio nome, senza sapere perché si comportano in quella maniera. Costretti a vivere nel presente, hic et nunc, perché il passato è sparito e il futuro sparirà.
Presentato in anteprima internazionale allo Slamdance Film Festival 2016 di Park City, Embers diretto dall’esordiente regista americana Claire Carré e dalla stessa sceneggiato assieme a Charles Spano, è un notevole prodotto sci-fi indipendente messo su con un limitatissimo budget e coprodotto da Stati Uniti e Polonia.
Come nasce l’idea del film? “Ero alla mia opera prima, quindi doveva essere un’idea forte, importante e molto personale. Riflettendoci su, mi è venuto in mente il tema della memoria e della sua perdita. Cosa sarei senza memoria? E cosa sarebbe il mondo senza ricordi? Al tempo in cui, con Charles, stavamo buttando giù il soggetto, seguivamo la serie televisiva Star Trek: The Next Generation (1987-1994). Nella serie, i membri dell’equipaggio di un’astronave passavano continuamente da un pianeta all’altro, da un mondo all’altro. Questa idea mi ha molto colpito ed influenzato”.
Nel film colpisce molto – anche da un punto di vista simbolico – la presenza di questo bunker disperso nella campagna. Dove sono avvenute le riprese? “Il bunker che vedete nel film si trova in Polonia e risale alla seconda guerra mondiale. Si tratta di circa 33 chilometri di gallerie sotterranee, forse il sistema di cunicoli più grande in Europa. Inoltre, è solitamente popolato da tantissimi pipistrelli. Durante le riprese si stava a più di dieci metri sotto terra. Gli interni, invece, sono ambientati in una fabbrica abbandonata, sempre in Polonia”.
La regista ci spiega poi il motivo per cui ha deliberatamente scelto un cast internazionale: “Si tratta di una storia che riguarda tutti. Tutti abbiamo una memoria, tutti potremmo perderla”. Troviamo così degli attori americani (Jason Ritter, Karl Glusman, Tucker Smallwood), un’attrice bulgara (Iva Gocheva), un giovanissimo attore tedesco (Silvan Friedman), degli attori di lingua spagnola (Greta Fernández).
Claire, divertita, spiega come molti spettatori le abbiano chiesto di proseguire il film, pensando si trattasse di un episodio, di come si siano appassionati alle singole storie, quasi volendo che il film divenisse una sorta di serie televisiva. “In realtà non era questa la mia intenzione, per quanto mi riguarda è un film concluso. Naturalmente, ho prima immaginato e poi costruito attentamente le storie dei personaggi. Ma tutti voi potete liberamente proseguire le loro storie nella vostra mente, se lo desiderate”.
Nel film, soprattutto nella costruzione degli interni – così asettici, geometrici e moderni – si possono cogliere dei riferimenti al cinema di Michelangelo Antonioni e alla pittura di Edward Hopper.
“Sono due artisti che conosco e che amo molto”. “L’architettura degli interni – spiega ancora Claire – è stata progettata con i personaggi inquadrati su uno sfondo fisso per comunicare un’idea di immobilità e solitudine. Un riferimento voluto è quello all’architetto giapponese Tadao Andō e alla sua visione stereometrica. Lo spazio del bunker è quasi monocromatico e prevale un’atmosfera come condensata ed assorbita all’interno, come se la vita stessa vi venisse risucchiata dentro”.
Charles Spano ci racconta come è nata la figura del padre di Miranda, una delle protagoniste della pellicola: “Il mio punto di vista è che il padre di Miranda è un uomo affettuoso e protettivo e mi trovo d’accordo con la sua prospettiva di vita. È come un baluardo della memoria collettiva ed un ultimo depositario della cultura, si sforza di non perdere la memoria dell’arte, della musica, della poesia. Mostra un fortissimo senso di responsabilità, è una figura indispensabile”.
Alla domanda se si fosse comportata come Miranda che, dopo quasi dieci anni, decide di lasciare la protezione e l’incolumità del bunker pur di “provare a vivere”, la regista americana risponde: “Sinceramente non saprei dirlo. Forse proprio per questo la sua storia mi è piaciuta particolarmente. Sono una persona estremamente nostalgica e legata al passato. Al tempo stesso, mi considero anche avventurosa e con il gusto dell’imprevisto e dell’avventura. Che dire, è una decisione che potrebbe dipendere da come mi sento in quell’ipotetico giorno”.
“Nel film – conclude la regista – ci sono tante storie diverse, ognuna con la sua moralità. È una struttura narrativa voluta per analizzare il disastro da vari punti di vista e con approcci diversi. Del resto, i personaggi dimenticano di avere fatto sesso, di essere stati violenti o aggressivi. La loro natura si scopre attraverso la ripetitività delle reazioni, giorno dopo giorno, ricordo perduto dopo ricordo perduto”.
Embers è un esordio decisamente accattivante. Appaiono piuttosto evidenti i suoi punti di riferimento cinematografici: da un lato, la densità filosofica ed esistenziale di Andrej Tarkovskij, dall’altro la amnesia anterograda che affligge il protagonista di Memento di Christopher Nolan (2000). Identità e memoria rappresentano il tessuto connettivo di una comunità: senza di esse una comunità non ha ragione di esistere. L’unica possibilità diventa il trovare un metodo abitudinario (come fa il professore) o l’affidarsi alla sensibilità per “riconoscersi” (come fanno i due presunti amanti nel decidere di baciarsi per “riappropriarsi” dell’altro). Embers è un film di esterni e di interni, di “sopra” e di “sotto”. A tale proposito, risulta particolarmente efficace il diverso modo di raccontare questi due “spazi” (camera a mano, oscillante e a tratti vertiginosa, per seguire le vicende di chi si affanna inutilmente a recuperare un’identità, camera fissa ed inquadrature scientifiche e geometriche per chi un’identità ce l’ha ancora, ma non ha più una vita). Il film è anche una riflessione sul linguaggio e sul silenzio, sulla distanza e sull’incomunicabilità, temi da sempre cari alla fantascienza. Embers va visto e – possibilmente – apprezzato non perché inventa un cinema nuovo, ma perché rielabora con voce propria un cinema che già conosciamo.
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