TS+FF 2016 – Incontro con Rutger Hauer
Il leggendario Roy Batty di Blade Runner è la star più attesa di questa edizione del festival. Dal celebre monologo ad Ermanno Olmi passando per Besson ecco il premio Urania d’Argento alla carriera
La Mediateca in via Roma trabocca di giornalisti ed operatori del settore cinematografico. Alle 10.10 è prevista la conferenza stampa di Rutger Hauer, ospite d’onore e premio Urania d’Argento alla carriera, vera ed indiscussa star di questa 16a edizione del Trieste Science+Fiction Festival. Gli spazi del Magazzino delle Idee non sono sufficientemente ampi e l’attore olandese – è risaputo – è piuttosto esigente. Ha la fama di essere alquanto spigoloso e di annoiarsi a fronte di domande trite e ritrite, ma quello che abbiamo visto venerdì è un Hauer estremamente loquace e disponibile che allunga a dismisura e a suo piacimento i tempi delle risposte, facendo inevitabilmente slittare la scaletta degli incontri previsti a seguire. Berretto di lana nero, cappotto verde e rosso con disegni geometrici, gli occhi cerulei sempre penetranti e magnetici, vero marchio di fabbrica (e detto per lui – passato alla storia del cinema per il ruolo di un replicante – suona profetico e grottesco assieme).
Cosa ci puoi dire del tuo ruolo nello sci-fi di Luc Besson, Valerian and the City of a Thousand Planets, la cui uscita nelle sale è prevista il 21 luglio 2017? Sappiamo che il film è tratto dal graphic novel Valérian and Laureline, scritto da Pierre Christin e disegnato da Jean-Claude Mézières.
“Per la verità non posso dire molto. Ho girato un solo giorno ed interpreto un ruolo secondario. Ma è un’altra soddisfazione che mi sono tolto, quella di recitare per un regista importante con il quale non avevo mai lavorato in precedenza. Uno degli aspetti più curiosi ed interessanti è che, durante le riprese, ho avuto modo di frequentare e conoscere meglio Ethan Hawke. Ho lavorato con Ethan due volte – Tonight at Noon (2009) di Michael Almereyda ed il recente 24 Hours to Live (2016) di Brian Smrz – ma ci siamo sempre solo sfiorati. Questo è un aspetto divertente del cinema: lavori in più occasioni con un collega, ma in fondo non lo conosci. Ci siamo incrociati diverse volte e casualmente a Parigi e forse, senza il film di Besson, avremmo continuato solo a sfiorarci senza mai conoscerci davvero“.
Cosa ne pensi del sequel di Blade Runner (1982), Blade Runner 2049? Il film, che rivede assieme dopo 35 anni Ridley Scott nelle vesti di produttore e Harrison Ford nei panni di Rick Deckard, è atteso nelle sale il 6 ottobre 2017.
“Trovo che sia un’operazione che non ha molto senso e sinceramente ne so pochissimo. Non mi coinvolge particolarmente, staremo a vedere. Piuttosto, sono interessato a trasformare in film una sceneggiatura che ho appena finito di scrivere. Ecco, se mai il progetto andrà in porto, mi piacerebbe che ci fosse Ethan a recitare nel film“.
Con quale ruolo, nella tua lunga carriera, hai avuto più difficoltà?
“Recitare è una gioia, deve essere un gioco ed un piacere. Mi sento sempre come un bambino che sale su una giostra. Non ha molto senso parlare di ruoli più o meno difficili. D’altra parte, ogni cosa presenta difficoltà e può provocare sofferenza per chi vive davvero e fa delle scelte. È poi chiaro che considero quello di Roy Batty in Blade Runner il ruolo più complesso, ma dirò di più: quello è il ruolo per il quale sono nato. Per il resto, non capisco come si possano amare le cose facili e scontate, quelle che non presentano sfide! Ecco, lasciamole ai morti!“.
Non potevano mancare le domande sul celebre monologo in Blade Runner e sulla scena del volo della colomba. “Il monologo faceva parte fin dall’inizio dell’ultimo atto del film. L’idea era di sviluppare il film come una vera e propria opera, una sinfonia con un crescendo drammatico nel finale. Inizialmente, il discorso che avrei dovuto pronunciare era molto più complesso e denso di significati. Allora, con Ridley, ci siamo detti: ma è il caso di inserirlo così in un film che già presenta scene di morte (i replicanti) e momenti evocativi e lirici pregni di significato? Cerchiamo piuttosto di semplificare il tutto, manteniamo solo poche parole, preserviamo l’aspetto poetico e da testamento universale e via. Abbiamo scelto di essere più brevi ed efficaci, pochi concetti base e poche parole. Non ultimo, anche per potermi concentrare meglio in un film che mi aveva portato via tantissime energie fisiche. Ecco, è andata così e il monologo è diventato quello che è diventato. Tutto il film è come se fosse una sorta di preparazione a questo climax finale e alla morte del mio personaggio. In effetti, non cado durante una scena d’azione come una macchina da guerra, mi spengo lentamente e in un momento di stasi”.
Quanto alla scena della colomba, Hauer la ricorda come un momento divertente e, al tempo stesso, complicato da girare. “Pioveva sul set, c’era freddo e questa pioggia artificiale incessante. La colomba, tra le mie mani, non voleva saperne di andare via, probabilmente aveva freddo e cercava il calore di un corpo. Così si è creato un problema: continuava a passeggiarmi addosso, le battevo con la mano sotto ma niente, non volava via. Alla fine abbiamo dovuto usare l’editing, il montaggio: in una parola, la grande magia del cinema. Ecco perché, ogni volta che vedo quella scena – al di là dell’aspetto evocativo e simbolico – mi viene da sorridere“.
E ancora: “Blade Runner mi ha dato tantissimo come scuola di recitazione. Quando su un set subentrano problemi di natura tecnica ed incomprensioni, personalmente mi sento maggiormente stimolato a dare il meglio e mi diverto di più. Ho imparato questo: aspetto sempre un intoppo, un incidente di percorso, un’incomprensione che dia una svolta. I film girati in un clima di armonia e concordia non esistono o, a mio parere, hanno ben poco da dire. Gli attori vogliono dare la massima credibilità possibile ad una storia. Ma quando arriva qualche problema imprevisto è come se la vita reale entrasse nella finzione, si crea quello che a mio giudizio è un corto circuito creativo e tutto diventa più interessante. È esattamente questo che mi auguro che avvenga su un set. Per meglio capire tutti questi aspetti, vi consiglio di guardare il documentario Dangerous Days, Making Blade Runner (2007) realizzato in occasione del 25° anniversario di Blade Runner. Vi si racconta tutta la lavorazione del film“.
Spiegaci la tua concezione di recitazione.
“Tempo fa ho conosciuto l’architetto canadese Frank Gehry, famoso tra le altre cose per avere progettato il Museo Guggenheim di Bilbao. Ricordo che era sempre lì a stracciare piccoli fogli, ad appallottolarli, a scartarli e poi a riprenderli, a chiedersi se si potesse fare meglio del progetto precedente. Ecco, per me la recitazione è proprio questo: una costante sfida a migliorarsi, perché quello che non va bene oggi potrebbe andare bene domani“.
Che ricordi hai delle riprese de La Leggenda del Santo Bevitore di Ermanno Olmi (1988), sceneggiato dal regista assieme ad un triestino doc come Tullio Kezich e con la fotografia di Dante Spinotti?
“È stato tutto assolutamente casuale, io ed Ermanno non ci conoscevamo neppure. Lui vide passare in televisione una mia intervista promozionale per il film The Hitcher (1986) e rimase colpito dal mio volto. Così mi fece contattare dai produttori e fissammo un appuntamento a Parigi. Il film è semplicemente fantastico, ha toccato le corde della mia anima. Lavorare con Ermanno non è stato semplice, avevamo costantemente bisogno di un interprete per comunicare. Di fronte alle mie perplessità iniziali, lui mi spronava a pensare al mio ruolo come ad un ruolo di azione, solo un’azione a livello mentale. Diciamo che il romanzo di Joseph Roth era il nostro faro, la sceneggiatura la barchetta sulla quale galleggiavamo e l’improvvisazione sul set il nostro salvagente. La cosa a mio parere più memorabile venne fuori durante le riprese delle scene secondarie e non vitali nell’economia del film. Ermanno sembrava assente e distratto, ma sapeva sempre cosa gli stava capitando attorno e cosa dire alla troupe. Allora gli chiesi come facesse a tenere tutto sotto controllo pur apparendo distaccato, quasi apatico. Mi rispose che lui badava al concetto di insieme e che aveva una visione sinfonica del suo lavoro. Era come dirigere un’opera, si accorgeva di tutto da un rumore, una voce, un semplice movimento. Dopo oltre venti anni ci siamo ritrovati nel Villaggio di cartone (2011), un’opera visionaria e per me fondamentale sulle tematiche legate all’emigrazione, all’emarginazione e alla solidarietà. Anche quando lavorava ad un progetto apparentemente improvvisato e bizzarro, Ermanno era in grado di creare opere uniche“.
Trovi delle affinità tra il mondo distopico descritto in Blade Runner e la realtà attuale?
“Di sicuro trovo che siamo un pianeta sovraffollato e il sovraffollamento porta con sé tanti problemi, a cominciare dall’inquinamento. Sono sempre stato sensibile ai temi ambientalisti, la salute del pianeta mi sta a cuore e mi preoccupa. Noi abbiamo bisogno della Terra, diamoci da fare e prendiamocene cura“.