TS+FF 2017 – Sci-fi dell’Europa Orientale: i film di Madarász, Kox e Shipenko

La seconda giornata della rassegna triestina ha offerto l’occasione per fare il punto sulle proposte sci-fi provenienti da Ungheria, Polonia e Russia. Loop temporali, distopia e missioni spaziali

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La seconda giornata del Trieste Science+Fiction Festival 2017 ha proposto una serie di titoli che consentono di tracciare una panoramica sull’universo, le atmosfere e la cultura sci-fi che anima alcuni paesi dell’Europa Orientale, siano essi ricchi di storia e di tradizione in questo genere cinematografico o ancora poco avvezzi – e poco propensi – alla “sperimentazione immaginifica” da un punto di vista produttivo e distributivo. Se, infatti, la Polonia si conferma terra particolarmente feconda nella creazione o nella rielaborazione di stilemi fantascientifici, visivi ed estetici, di notevole fascino, la Russia rimpolpa la propria grande tradizione di voli intergalattici e missioni spaziali abbandonando, tuttavia, l’indagine filosofica e le letture ontologiche e introspettive tanto care ai maestri sovietici e strizzando l’occhio all’eroismo e alla logica da blockbuster statunitense, mentre l’Ungheria tenta di destarsi dal letargo (pare che il primo sci-fi magiaro a tutti gli effetti sia stato prodotto solo nel 2011, Thelomeris di Balázs Hatvani) con un lavoro che guarda in toto ai sottogeneri dell’ucronia e del loop temporale in salsa statunitense. Ma andiamo con ordine.

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loop2Rivelatosi all’Hungarian Film Week 2001 con il cortometraggio auto-prodotto Moral Bypass, dopo una serie di produzioni per la televisione (The Unbeatables [A Legyözhetetlenek], 2013) e a dieci anni dal suo primo lavoro riconosciuto a livello internazionale, il cortometraggio Sooner or Later [Elöbb-utóbb] (2006) – passato per la Berlinale 2007 – il regista ungherese Isti Madarász (41 anni il 16 novembre prossimo) scrive e dirige il suo primo lungometraggio di finzione, Loop [Hurok], un thriller sci-fi interamente incentrato sugli anelli temporali. Adam viene assoldato per trafficare sostanze mediche illegali sullo sfondo di un traffico internazionale di ormoni della crescita prelevati dall’ipofisi dei cadaveri di un ospedale, ma questa volta lui e la sua fidanzata Anna hanno in mente di fuggire col carico e iniziare una nuova vita. Quando stanno per partire, scoprono che Anna aspetta un bambino: Adam decide allora di abbandonare la compagna al suo destino e di partire da solo. Sarà solo la prima di una serie di decisioni sbagliate che manderanno tutto fuori controllo. Le stesse idee di principio e di fine perderanno presto ogni significato, facendo cadere lo spettatore in un nastro di Möbius e Adam in una catena di scelte che cercano ciascuna di porre rimedio all’errore precedente. Ma una nuova opportunità non sempre equivale a un nuovo inizio. Riuscirà Adam ad affrontare le complicate ripercussioni delle sue decisioni e, al contempo, a tenere in vita Anna?

Presentata in concorso al 37 Oporto’s International Film Festival, la pellicola ungherese è un frenetico e godibile congegno concepito per intrattenere e divertire lo spettatore. Non si contano le citazioni ai classici di questo specifico filone fantascientifico, dalla trilogia di Ritorno al Futuro (1985; 1989; 1990) di Robert Zemeckis a L’Esercito delle 12 Scimmie (1995) di Terry Gilliam, dalla saga di Terminator, in particolare i primi due film (1984; 1991) di James Cameron alla gemma indipendente Primer (2004) diretto, prodotto e interpretato da Shane Carruth. Ed è proprio quest’ultimo che il cineasta magiaro ha inteso omaggiare, definendolo il suo film sci-fi preferito. Insomma, il soggetto non brilla, certo, per originalità e non si affranca dai cliché che solitamente infarciscono il canovaccio narrativo di questo sottogenere: la presa di coscienza della “gabbia temporale” da parte del malcapitato, il tentativo di “scoprire la falla” e di uscirne attraverso un progressivo percorso di redenzione morale e il tema dello sdoppiamento. L’elenco delle pellicole che hanno attinto a questo τόπος della narrativa e della cinematografia di fantascienza è sterminato (solo per citarne alcuni: Source Code, 2011, di Duncan JonesEdge of Tomorrow – Senza Domani, 2014, di Doug LimanWake Up and Die [Volver a Morir], 2011, di Miguel UrrutiaThe Infinite Man, 2014, di Hugh Sullivan, senza dimenticare la celebre commedia Ricomincio da Capo [Groundhog Day], 1993, di Harold Ramis). Tuttavia, Loop ha comunque alcune frecce al suo arco, a cominciare da una sceneggiatura robusta e piuttosto attenta ad evitare incoerenze, sfaldature e, in ultima analisi, le mille trappole che un simile soggetto cela e da un montaggio (realizzato da Zoltán Kovács) estremamente ritmato ed efficace. Nota di merito anche per la nitida fotografia del talentuoso András Nagy. Madarász privilegia l’adrenalina e il ritmo incalzante a scapito delle nuances psicologiche dei personaggi – la recitazione dei protagonisti, Dénes Száraz e Dorina Martinovics, si rivela senza infamia e senza lode – e dello spessore contenutistico, soprassedendo in particolare ad ogni approfondimento scientifico e trattando la materia con uno spirito ibrido tra action movie e commedia romantica. Alla guida della produzione di Loop figura Tamás Hutlassa per Café Film e la pellicola beneficia del sostegno dell’Hungarian Film Fund che guida le vendite internazionali.

Ho voluto realizzare una commedia romantica in uno scenario di distorsioni temporali”, racconta il regista alla platea di Trieste. “In Ungheria non esiste una grande tradizione di cinema fantascientifico e quando ho presentato l’idea alcuni produttori mi hanno riso dietro e mi hanno dato del pazzo. Ma volevo fortemente realizzare un film che esprimesse tutto il mio amore per la fantascienza e per questo tipo di film, che amo incondizionatamente e con i quali sono cresciuto. Quando ho buttato giù la sceneggiatura la pianificazione dei vari anelli temporali in cui il protagonista si trova confinato era estremamente semplice e delineata: sapevamo perfettamente chi doveva morire e quando doveva uscire di scena. Poi, rivedendo il film, i continui accavallamenti sembrano rendere il tutto complesso ed incomprensibile, ma vi invito a fare attenzione e capirete che la spiegazione è già nel primo cerchio. Le scene sono state girate più volte con l’obiettivo di cambiare ad ogni ciak il punto di vista, mentre la scena dello spettacolare incidente finale è stata girata una sola volta: dal momento che l’automobile non era abbastanza danneggiata, la troupe ha provveduto a distruggerla con mazze ed armi improvvisate. Nel film c’è una visione piuttosto biblica del male e del bene e alla fine queste due entità si scontrano anche fisicamente. A differenza di altre pellicole simili, non ho voluto inserire macchine del tempo, lampi di luce o altri effetti speciali, ma ho fatto in modo che il film progredisse sempre, andasse avanti e si evolvesse. Lo spettatore più attento capirà che è un uso particolare delle luci a rivelare l’origine del loop”. Infine, il regista strappa qualche risata: “Mentre eravamo impegnati nella fase di pre-produzione arrivò la notizia dell’uscita nelle sale dello statunitense Looper [2012, di Rian Johnson]. Ma non aveva senso cambiare il titolo: noi avevamo qualche sconosciuto attore ungherese, loro Bruce Willis!”.

MG_0476-2 (1)A differenza dell’Ungheria, la Polonia è una delle patrie della fantascienza europea e mondiale. Terra adottiva del grande romanziere ucraino Stanisłav Lem, vanta una grande tradizione nel settore con registi come Juliusz Machulski, Piotr Szulkin e Andrzej ŻuławskiNel 2013 il quarantenne attore, regista e sceneggiatore Bodo Kox ha ottenuto il Polish Film Award con il suo film d’esordio, The Girl from the Wardrobe [Dziewczyna z szafy], un’imprevedibile ed originale “commedia tragica” – salutata come una delle produzioni indipendenti più interessanti dell’anno – che raccontava con un misto di black humour e tenerezza una storia d’amore tra due veri emarginati: l’ipersensibile Magda e Tomek, affetto dalla sindrome del savant. A quattro anni di distanza, ecco The Man with the Magic Box, che partecipa al Festival del Cinema di Varsavia nella sezione “Concorso 1-2” dopo aver fatto la sua première mondiale al Festival del Film di Busan nella sezione “Flash Forward”.

Varsavia, 2030. In un futuro distopico non troppo lontano, Adam scappa dalla zona più povera della capitale polacca verso la Nuova Città. Con l’aiuto di una società segreta, trova un appartamento in un vecchio edificio e un lavoro come addetto alle pulizie. Si innamora di Goria, un’affascinante impiegata dell’Ufficio Risorse Umane, che però non lo prende sul serio. Nell’appartamento Adam trova una radio degli anni ‘50 che trasmette musica del passato. Ma la radio emana anche delle onde theta che consentono di viaggiare nel tempo. Sperimentandone il funzionamento, Adam si ritrova prigioniero nel passato. Quando non si presenta al lavoro, Goria – capendo di aver perso il vero amore – comincia a cercarlo nel passato.

La pellicola è un campionario baroccheggiante di citazioni e di omaggi sci-fi tributati con raffinatezza e autentico amore per il proprio lavoro. Colpisce, infatti, l’estrema disinvoltura con la quale il regista dissemina e sovrappone nel tessuto narrativo della storia trovate eccentriche ed eterogenee che se, da un lato, spiazzano lo spettatore e rompono la linearità del plot, dall’altro dimostrano una coerenza concettuale ed una precisa idea di cinema. Kox si dimostra, infatti, non particolarmente interessato a dare al suo film una trama credibile o, quanto meno, intelligibile, quanto a ricreare un’atmosfera riconoscibile, a forgiare uno stile. Non sorprende, quindi, vedere comporsi nella sua pellicola l’atmosfera distopica di Children of Men (2006) di Alfonso Cuarón e di Brazil (1985) di Terry Gilliam con scenari noir e cyberpunk à la Blade Runner (1982), personaggi che sembrano usciti da un poliziesco di Jean-Pierre Melville con riferimenti hollywoodiani presi da Men in Black (1997; 2002) di Barry Sonnenfeld e Fight Club (1999) di David Fincher, senza dimenticare i grandi maestri Andrzej Żuławski e Andrej Tarkovskij. Ne viene fuori una visione piuttosto cupa e pessimistica della società e della politica attuali, un progressivo ed inesorabile cammino verso la rovina della civiltà che soltanto un sentimento come l’amore può in qualche modo riscattare. Combattuta tra l’Occidente moderno e l’Est selvaggio, e ancora sotto un governo totalitario, la capitale polacca è tanto affascinante quanto angosciante. Notevoli le performance dei tre protagonisti principali – Piotr Polak, Olga BołądźSebastian Stankiewicz – e i costumi di Katarzyna Adamczyk. Da segnalare, infine, la straordinaria colonna sonora composta da Sandro Di Stefano, valsa al compositore frusinate un premio al Polish Film Festival di Gdynia a settembre scorso. The Man with the Magic Box è stato prodotto dalla società polacca Alter Ego Pictures e dall’italiana Vargo Film. Kino Świat si occupa della distribuzione in Polonia, mentre le vendite mondiali sono in mano a Reel Suspect.

Racconta il regista: “Sono un grande ammiratore di George Orwell, ma l’ispirazione principale per il film me l’ha data una vecchia radio in mio possesso. Ho voluto realizzare un film romantico in tempi difficili, che parlasse di amore alle soglie della rovina della civiltà”. In una scena particolarmente stravagante del film vediamo alcuni writers scrivere su un muro la frase “Il miglior futuro possibile è il passato”: “Ed è proprio quello che penso, ma dopo tutta la merda che ci circonda mi auguro torni a splendere il sole”, dice Kox. “Forse il futuro rappresentato nel film è soltanto il frutto dell’immaginazione degli scienziati del passato o, chissà, il prodotto della fantasia del protagonista. Ho impiegato due mesi per effettuare le riprese, quattro mesi per la preparazione e oltre quattro anni per scrivere la sceneggiatura. La maggior parte dei luoghi raffigurati nel film sono reali, mentre gli edifici danneggiati sono frutto di effetti speciali. Gli uffici e gli accessori sono veri, mentre il condominio e tutto ciò che vi si trova è stato ricostruito in studio”.

Salyut_7_19.0Ed eccoci, infine, all’attesissimo Salyut-7 di Klim Shipenko.

Giugno 1985. La stazione spaziale sovietica Salyut-7 sta orbitando, senza equipaggio, attorno alla Terra. Improvvisamente smette di rispondere ai segnali del comando di Terra. Un’eventuale caduta della stazione, orgoglio della scienza e dell’industria spaziale sovietica, non solo danneggerebbe l’immagine del paese, ma sarebbe anche un’immane tragedia con perdita di vite umane. Per impedire la catastrofe, i cosmonauti dovranno raggiungere la stazione e trovare la causa del guasto. Ma nessuno ha mai cercato di attraccare una stazione spaziale fuori controllo. Ancora oggi, questa rimane la missione tecnicamente più complessa nella storia della navigazione spaziale.

Nel raccontare questo evento di straordinaria importanza scientifica che, al tempo stesso, fu anche un’impresa con implicazioni politiche significative, Shipenko sceglie di mescolare realtà e finzione: la famosa missione spaziale sovietica viene narrata in maniera credibile ma non documentaristica, a partire dalla creazione di personaggi fittizi in luogo dei veri artefici del salvataggio della sonda spaziale e concedendo un ampio spazio “cinematografico” alle singole esperienze di vita dei due piloti. Troviamo così il cosmonauta Vladimir Fyodorov e l’ingegnere spaziale Viktor Alyokhin – ben interpretati da Vladimir Vdovichenkov e Pavel Derevyanko – al posto dei reali protagonisti, Vladimir Dzhanibekov e Viktor Savinykh. E troviamo, come in ogni dramma che si rispetti e che sia volto a raggiungere un grande pubblico, molti accenni alla vita privata dei due astronauti, alle tensioni in famiglia, alle ansie e alle legittime recriminazioni delle proprie mogli. Un piccolo ruolo è dedicato al ricordo della seconda donna sovietica a volare nello spazio, la cosmonauta Svetlana Evgen’evna Savickaja. La pellicola del 34enne regista moscovita mette in scena un avvenimento cruciale avvenuto al culmine della Guerra Fredda e della “corsa allo spazio”, ma si concentra poco sugli aspetti politico-diplomatici e non ricostruisce con la dovuta acribia storica le tensioni internazionali connesse alla vicenda. Da questo punto di vista, non ne escono bene né il governo sovietico, né la controparte americana: il primo, preoccupato dai possibili sabotaggi e dallo spionaggio statunitense, è disposto a liquidare frettolosamente i cosmonauti in nome della salvaguardia dei segreti tecnologici delle proprie missioni spaziali, mentre ad enucleare l’atteggiamento dei rivali a stelle e strisce è la stampa dell’epoca reaganiana, impegnata a diffondere nell’opinione pubblica mondiale il sospetto dell’esistenza di armi nucleari sulla sonda sovietica con conseguenze devastanti per il pianeta. Ma quello di Shipenko non vuole essere un film propagandistico o, tanto meno, revisionista. Come detto, le questioni politiche restano sullo sfondo e appaiono tipizzate nella logica dei due blocchi contrapposti, tout court. Dove Salyut-7 funziona benissimo è, piuttosto, nel racconto dei dettagli dell’esplorazione spaziale, dei problemi tecnici e delle soluzioni ingegneristiche o pratiche per risolverli. L’alchimia tra i due protagonisti è perfettamente bilanciata tra la mente razionale e calcolatrice dell’ingegnere e l’impulsività e il pragmatismo del cosmonauta e ciò che è destinato a fare presa sul pubblico, non diversamente che per Apollo 13, è la loro capacità di far fronte alle più ingarbugliate situazioni, un “eroismo” che si traduce nell’affrontare i problemi senza lasciarsi travolgere dalle paure e dalla disperazione, talvolta anche con un piglio scherzoso. Insomma, se non fosse per le fisionomie e per un certo fatalismo di stampo prettamente russo, penseremmo davvero di trovarci di fronte al prototipo cinematografico del “risolutore” americano. Ma qui siamo in Russia e a ricordarcelo è anche, e soprattutto, il ritmo, piuttosto dilatato e disseminato di pause. C’è anche qualcosa di mistico e di spirituale, nella sceneggiatura di Shipenko, che è funzionale non soltanto ad inserire nella pellicola quelle riflessioni ontologiche e quelle digressioni esistenziali che costituiscono tanta parte della cifra stilistica della fantascienza “di casa”: troviamo infatti un accenno alle prodigiose visioni celestiali che molti cosmonauti della missione Salyut-7 testimoniarono di avere avuto e che sono state secretate per anni dal governo sovietico (LEGGI QUI, a tale proposito, un articolo di Massimo Fratini). La straordinaria fotografia di Sergey Astakhov e Ivan Burlakov sopperisce alla deliberata mancanza del supporto 3D e riesce nell’impresa di filmare delle spacewalk degne di rivaleggiare con quelle di Gravity (2013) di Alfonso Cuarón. Presentato in anteprima internazionale al Fantastic Fest 2017 di Austin, Salyut-7 non è privo di qualche eccesso melodrammatico e rappresenta un perfetto corrispettivo russo all’eroismo statunitense celebrato con Apollo 13 (1995) di Ron Howard. I produttori della pellicola hanno giustamente vantato il fatto che il film mostri quaranta minuti di riprese a gravità zero e che si tratti di una pellicola costata 15 milioni di dollari ma che si presenta come un film di 150 milioni di dollari. Insomma, niente male come battage pubblicitario, ma allo stato attuale Salyut-7 ancora non ha trovato un distributore americano. Quanto all’Italia, il film sarà distribuito esclusivamente in home video da Blue Swan, la nuova label di OneMovie.

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