TS+FF 2018 – Peripheral, Calling All Earthlings, The Night Eats the World

Tra i titoli proposti dalla rassegna triestina lo sci-fi Peripheral di Paul Hyett, il documentario Calling All Earthlings di Jonathan Berman e l’horror The Night Eats the World di Dominique Rocher

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L’eclettico Paul Hyett – regista, montatore, make-up & prosthetic effects designer e attore (si ricorda, in particolare, la sua apparizione in Doomsday – Il Giorno del Giudizio, 2008) – si può ormai considerare un ospite abituale del Trieste Science+Fiction Festival, avendo fatto parte della giuria nell’edizione 2012 ed avendo presentato il suo secondo lungometraggio, Howl, nell’edizione 2015 (proiezione che gli valse il “Premio Nocturno – Nuove Visioni”). Dopo il notevole esordio dietro la macchina da presa con The Seasoning House (2012) – ripreso poi nell’antologia horror britannica a più mani It Walls Were Blood (2015) – il già citato Howl e il recente Heretiks (2018), Hyett presenta a Trieste in anteprima mondiale, e in concorso per il Méliès d’Argent, la sua ultima fatica, Peripheral, un affascinante quanto disordinato sci-fi sospeso tra rigurgiti vintage e atmosfere psichedeliche, derive futuristiche connesse all’utilizzo smodato di intelligenze artificiali e riflessioni sul processo creativo della scrittura. La giovane e inquieta Bobbi Johnson (Hannah Arterton), dopo anni di tentativi infruttuosi, ha raggiunto il successo e la notorietà con il suo primo romanzo, Bite the Hand, capace di avere una profonda influenza sull’opinione pubblica al punto da portare la Gran Bretagna sull’orlo di una guerra civile. Per sfruttare la fama ottenuta e proseguire i concetti illustrati nel primo lavoro, alla Johnson viene commissionato un sequel dal titolo Peripheral. Ma la giovane viene presto alle prese con il più classico dei blocchi dello scrittore, così la sua manager ed editrice Jordan (Belinda Stewart Wilson) le mette a disposizione un sofisticato software progettato appositamente per aiutarla nella stesura del suo secondo romanzo. Tra la donna e il programma, “animato” da un’intelligenza artificiale senziente, si instaura un rapporto morboso e di dipendenza che insinua il terrificante sospetto che, in realtà, il software non si limiti ad elaborare e dare senso compiuto alle idee della scrittrice, ma ne controlli totalmente l’attività mentale e anche la sfera sociale ed emotiva. Mentre la macchina manipola il suo lavoro per adattarlo ai propri ambigui scopi, Bobbi comincia a rendersi conto di essere controllata in modo più sinistro di quanto sospettava. Potrebbe infatti essere una pedina in una cospirazione volta al controllo mentale della società. Troppo dentro la tana del coniglio per poter tornare indietro, Bobbi deve quindi continuare a scrivere, combattendo le proprie dipendenze e le allucinazioni mentre le scadenze si avvicinano inesorabili e senza vendere l’anima lungo la strada e non diventare un altro ingranaggio all’interno di una macchina mostruosa. Tra le inquietanti videocassette che una giovanissima stalker di nome Shelly (Rosie Day), masochista e autolesionista quanto basta, le fa trovare in casa e le imprevedibili visite del suo ex fidanzato Dylan, schizzato e tossicodipendente, Bobbi percorrerà i meandri tortuosi della paranoia e della follia a braccetto con il terribile software.

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Intendiamoci, la pellicola affronta una serie di tematiche già abbondantemente sviscerate, in alcuni casi con risultati assai più lusinghieri, dalla fantascienza cinematografica: l’incidenza che ciò che viene scritto può avere sull’opinione pubblica e la sua strumentalizzazione e manipolazione per fini politici e sociali; il rapporto tra scrittore e editore e, soprattutto, tra uno scrittore e l’atto stesso della creazione letteraria; la moderna proliferazione ad libitum sfumando degli strumenti atti a “catturare” e veicolare la parola scritta; la deflagrazione formale e semantica che quest’ultimo aspetto comporta. Il tutto shakerato con la dipendenza hi-tech della generazione dei “millennials” e il pervasivo ritorno in auge della cultura, anche visiva, degli anni Ottanta. Appare evidente il richiamo – oltre che alla letteratura orwelliana e alle tesi complottiste che ne hanno fatto da corollario per tutto il Novecento fino al nuovo millennio nel suo descrivere machiavellici meccanismi totalitari atti ad esercitare un serrato thought control sulle masse – alle tecniche fantapolitiche del brainstorming assai discusse negli anni Cinquanta e Sessanta (vedi il famigerato “Progetto MK-ULTRA”), alla letteratura fantascientifica di Isaac Asimov, Philip K. Dick, Arthur C. Clarke, a certe suggestioni fumettistiche à la Alan Moore e, per restare in ambito cinematografico, agli incubi da mutazione genetica di David Cronenberg, in particolare eXistenZ (1999) e, soprattutto, Videodrome (1983), a tanta fantascienza “sintetica e neuronale” degli Eighties, fino a Il Seme della Follia (1994) di John Carpenter. Di quest’ultimo film, in particolare, Peripheral sembra essere una sorta di libero adattamento contemporaneo, proprio per il suo indagare le dinamiche psichiche che sono alla base del processo creativo della scrittura, laddove desk virtuali e proiezioni ologrammatiche hanno preso il posto della macchina da scrivere e delle risme di carta. L’ossessività con la quale la protagonista distrugge i fogli battuti a macchina nel trinciacarte e le inquietanti macchie di inchiostro che a mano a mano si imprimono indelebilmente sulla pelle delle falangi, delle mani e dei piedi – fino a diventare le stesse lacrime con le quali piange e lo stesso latte con il quale si nutre – veicolano perfettamente il senso più profondo della pellicola: la volontà di recuperare un rapporto più intimo e simbiotico con la propria attività di scrittore, quasi una nostalgia per apparecchiature, oggetti e pratiche tradizionali ormai obsolete e surrogate da strumentazioni e processi sempre più avveniristici, certo più comodi, rapidi ed efficaci, ma sicuramente alienanti e spersonalizzanti. La sceneggiatura scritta da Dan Schaffer, screenwriter e fumettista, ha il merito di approfondire sufficientemente le sfaccettature caratteriali ed emotive della protagonista attraverso un progressivo “deragliamento” dei sensi e delle capacità cognitive, ma non dimostra la capacità di tenere insieme con padronanza e coerenza discorsiva le molteplici suggestioni narrative, una pecca che si riflette anche, se non soprattutto, nella regia di Hyett, più a suo agio nel creare sequenze di forte impatto emotivo e visivo che non nell’amalgamare e dare una struttura unitaria ai dialoghi e all’evoluzione della vicenda. Lo stesso montaggio sembra seguire un andamento romanzesco “per capitoli”, suddividendo i vari passaggi narrativi attraverso drastici stacchi e cesure in nero, un’idea che si rivela indubbiamente suggestiva ed originale nella stessa misura in cui slega, forse eccessivamente, la struttura del racconto, frantumandolo in numerosi chip a discapito di una continuità di senso e di visione. Quello che, invece, non manca in Peripheral è la passione per il cinema e l’abilità di Hyett nel maneggiare un’infinità di citazioni e di riferimenti in maniera personale e accattivante, oltre che la capacità, già evocata, di elaborare sequenze (da ricordare sicuramente quella dell’amplesso “elettronico” tra i cavi del software e la protagonista) e “scolpire” immagini che rimarranno impresse nella memoria dello spettatore. Notevole la performance di Hannah Arterton, già nel cast di Heretiks, capace di infondere al suo personaggio le nevrosi e i tormenti della scrittrice di successo e gli incubi e le allucinazioni di una donna in lotta contro qualcosa di più grande di lei. In alcune scene, debitamente truccata e “impasticcata”, richiama vagamente alla mente l’iconica Pris (Daryl Hannah) di Blade Runner. Dopo The Seasoning House torna a recitare per Hyett anche Rosie Day. In sostanza, Peripheral è un discreto compendio di sottogeneri fantascientifici, un sincero omaggio a tanti cyber-thrilling e un monito, alquanto retorico ma forse necessario, a liberare la propria creatività più profonda dalle catene delle tendenze che ci vengono imposte dalla società attraverso complessi meccanismi che vorrebbero distogliere e annacquare la nostra capacità di analisi critica ed omologarci in un’amorfa massa facilmente influenzabile.

 

Calling All Earthlings, diretto e prodotto da Jonathan Berman, è un interessante documentario sulla controversa figura di George Van Tassel, sulle sue teorie ufologiche e sulla costruzione di una struttura, chiamata “Integratron”, in grado di ringiovanire la pelle umana, di facilitare la connessione spirituale tra gli individui, di combattere le leggi della gravità e di far viaggiare nel tempo. Nella parte sudorientale del deserto del Mojave, precisamente nella Homestead Valley, a pochi passi dal Joshua Tree National Park, si trova Landers, una comunità non incorporata negli Stati Uniti e situata nella Contea di San Bernardino in California. A nord di Landers si erge solitaria la Giant Rock, una gigantesca roccia di 538,84 metri quadrati, un elemento sacro per i nativi della regione e luogo privilegiato dove si riunivano periodicamente le tribù del nord e quelle del sud. Proprio qui, tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, si svolgevano annualmente i raduni della Spacecraft Conventions of UFO Enthusiasts. Ma chi era George Van Tassel? Originario dell’Ohio e proveniente da una famiglia agiata della classe media, aveva inizialmente lavorato presso l’aeroporto di Cleveland, ottenendo anche la licenza di pilota. All’età di vent’anni si trasferì in California dove trovò un impiego presso un’officina meccanica gestito da uno zio. Fu proprio in questo periodo che si imbatté in un eccentrico solitario di nome Frank Critzer, un immigrato tedesco che sbarcava il lunario come cercatore di metalli preziosi e che sosteneva di lavorare in una miniera nei pressi di Landers. Durante la Seconda Guerra Mondiale, Critzer fu sospettato di essere una spia tedesca e morì durante una retata di polizia nelle vicinanze della Giant Rock nel 1942. Dopo aver appreso della morte di Critzer, Van Tassel fece domanda per l’affitto dell’aeroporto abbandonato della zona al Bureau of Land Management, che gestiva la terra, e alla fine il governo federale gli concesse un contratto rinnovabile per sviluppare la pista di atterraggio. Successivamente, tra il 1930 e il 1947, Van Tassel lavorò come ingegnere aeronautico e ispettore di volo per svariate compagnie americane, come la Douglas Aircraft, la Hughes Aircraft e la Lockheed.

Ma veniamo al 24 agosto 1953. Come raccontò in seguito, Van Tassel, all’epoca quarantatreenne, quella mattina fu svegliato da un alieno con sembianze umanoidi e una tuta grigia e che si rivolse a lui in un perfetto inglese. L’alieno gli disse di chiamarsi Solganda, di avere circa 700 anni e di provenire da Venere. Gli disse anche di essere il capitano di un’astronave esploratrice parcheggiata nelle vicinanze, a Landers. Dopo averlo invitato a salire a bordo dell’astronave, gli rivelò che l’utilizzo dei metalli da parte degli umani per la costruzione di edifici stava interferendo con le frequenze radio e stava disturbando il flusso di pensieri interplanetario. Proprio per questo motivo Solganda gli consegnò le istruzioni per costruire una struttura che al proprio interno avrebbe sospeso la legge di gravità, esteso la durata della vita umana e agevolato i viaggi nel tempo. L’alieno andò via e Van Tassel non lo rivide più. Fondendo queste rivelazioni “aliene” con le ricerche e le intuizioni di Nikola Tesla nel campo dell’elettromagnetismo, Van Tassel realizzò nell’arco di un ventennio un’edificio, ubicato a cinque chilometri a sud della Giant Rock, utilizzando quasi interamente legno di abete e finanziando i lavori con svariate donazioni. Lo chiamò “Integratron” e spiegò che era “un generatore elettrostatico ad alto voltaggio che avrebbe rifornito un gran numero di frequenze al fine di ricaricare la struttura cellulare”. Costruito a forma di cupola e pitturato interamente di bianco, l’edificio era alto circa undici metri e aveva un diametro di quasi diciassette metri. Sulle pareti della struttura furono costruite sedici finestre rettangolari, mentre il pavimento era quasi lucido. Van Tassel, che nel frattempo si era “specializzato” in avvistamenti alieni e dischi volanti, morì nel 1978 per un attacco di cuore, a poche settimane dall’inaugurazione ufficiale della struttura. Prima di morire aveva fatto a tempo a fondare un’organizzazione di ricerca metafisica chiamata The Ministry of Universal Wisdom. I suoi adepti, riuniti in un collegio, codificavano le rivelazioni spirituali che ricevevano regolarmente tramite le comunicazioni con gli alieni. Il sito web della struttura riporta che “i macchinari di George Van Tassel, i suoi appunti e i suoi schemi scomparvero poco dopo la sua morte, e non sono ancora stati ritrovati. La cartella che l’FBI ha messo insieme su di lui è ancora top secret”. A causa dei debiti, la sua seconda moglie fu costretta nel 1986 a vendere la struttura per 50.000 dollari. Gli acquirenti, Emile Canning e Diana Cushing, la aprirono al pubblico e piantarono alberi attorno all’edificio che divenne una specie di meta per appassionati di avvistamenti UFO e di sessioni meditative. A partire dal 1987 cominciarono a frequentare il posto anche le tre sorelle Joanne, Patty e Nancy Karl. Nel 2000, quando Canning e Cushing misero in vendita la struttura, le sorelle Karl decisero di fare un’offerta e riuscirono a comprarla. Oggi l’“Integratron” è diventato una specie di centro benessere, sebbene piuttosto particolare. Joanne Patty spiega che “è l’edificio più incredibile che io abbia mai visto: nessuno viene qui e poi scrolla le spalle rimanendo indifferente”. Racconta Jody Rosen che “per una cifra dai 20 agli 80 dollari i visitatori possono sperimentare il cosiddetto bagno di suoni”: mentre sono sdraiati su alcuni materassi, le sorelle Karl percuotono delle specie di ciotole in quarzo producendo suoni che fluttuano all’interno della cupola. Il risultato consisterebbe in una “guarigione sonora”: onde di pace, livello di attenzione potenziato e rilassamento del corpo e della mente. Spiega Rosen: “Mentre sei sdraiato all’interno di quella cupola di legno, non sembra che tu stia ascoltando della musica, ma piuttosto che tu vi sia proprio dentro: come se fossi all’interno di uno strumento musicale, nella pancia cava di un immenso violoncello. Esteticamente parlando, è effettivamente un’esperienza extraterrestre: un’esperienza di incontro con un suono purissimo, una cosa molto poco comune”. Fatto sta che il sito è diventato abituale luogo di sperimentazione acustica per numerose band e artisti di musica rock, come gli Arcade Fire, gli Arctic Monkeys, Josh Homme – cantante e chitarrista dei Queens of Stone Age – Robert Plant, leggendario vocalist dei Led Zeppelin e Jarvis Cocker, leader dei Pulp. Joanne Karl spiega, divertita: “Non siamo propriamente uno studio di registrazione, ma molti musicisti hanno registrato qui dei concerti acustici”. Varia è l’umanità che oggi frequenta la struttura, come racconta Rosen: “Qualsiasi giorno, una notevole sfilata di vari personaggi può attraversare la porta dell’Integratron: fanatiche del benessere col tacco alto, cenciosi praticanti di yoga, uno sciamano peruviano, una rock band inglese, un coro femminile, un ragazzo dal cuore spezzato in cerca di sollievo spirituale”. Berman incontra e intervista una folla di personaggi curiosi e stravaganti: il barbuto e vecchio genero di Van Tassel, il cui nome è Daniel Boone, spiritisti e guaritori, qualche vecchio hippy, uno storico esperto della tribù degli indiani Morongo, Eric Burdon, carismatico frontman dei The Animals, Art Kunkin, giornalista e fondatore del Los Angeles Free Press, Kevin Starr, storico e professore presso l’Università della California. Le tante, diremmo anche troppe testimonianze stimolano e intrattengono amabilmente lo spettatore, ma finiscono con il togliere spazio al racconto principale, mentre l’approccio divertito ed empatico di Berman, sicuramente lontano da quello di uno storico o di un antropologo, contribuisce a fornire una coloratissima e gustosa carrellata di tipi, di convinzioni, di fascinazioni e di credenze piuttosto che ricostruire scientificamente il portato delle teorie di Van Tassel e sottoporlo ad un più equo contraddittorio. Resta intatto il fascino di una storia realmente accaduta e che a suo tempo fece scalpore, sospesa a metà tra alieni, culti primitivi e fisica elettromagnetica, mentre i fotografi Tony Molina e Gregory Wilson fanno un ottimo lavoro nel “catturare” sull’obiettivo della camera il terreno della California meridionale, facendone emergere tutta la struggente suggestione e la bellezza senza tempo.

 

Presentato recentemente in anteprima internazionale alla 47a edizione dell’International Film Festival di Rotterdam e poi al Tribeca Film Festival di New York, The Night Eats the World [La Nuit a Dévoré le Monde] segna l’esordio nel lungometraggio del giovane regista francese Dominique Rocher (autore di due cortometraggi: Haïku [Rabbits in Your Headlights], 2009, e La Vitesse du Passé, 2011), contemporaneamente impegnato a collaborare in un’altra pellicola di fantascienza, Dans la Brume, diretta da Daniel Roby. Sam (Anders Danielsen Lie) è ad una festa in compagnia della sua ex ragazza, Fanny. Insofferente al baccano e ai convenevoli, decide di chiudersi in una stanza appartata, in attesa che la ragazza lo raggiunga. Prende anche in considerazione l’idea di andare via, ma il desiderio di recuperare la sua collezione di dischi lo trattiene nell’edificio. Addormentatosi, si risveglia la mattina successiva, esce dalla camera e scopre che nel giro di poche ore è scoppiato il caos. Disordine, tracce di sangue ovunque e strani incontri con personaggi inquietanti: tutto lascia presagire che in giro ci sia un’orda di zombie affamati di carne umana. Il giovane si asserraglia così nell’appartamento, raccoglie tutte le provviste che riesce a trovare nei paraggi, si procaccia un kit di sopravvivenza e libera gradualmente l’intero edificio piano per piano, senza porsi più di tanto il problema di cosa fare nel futuro meno prossimo, salvo poi ravvedersi del suo egoismo in seguito ad un provvidenziale quanto tragico incontro. Parigi, dunque, al centro di un attacco di non-morti, non diversamente da ciò che avveniva, otto anno fa, in La Horde di Yannick Dahan e Benjamin Rocher. A cambiare sostanzialmente è soltanto l’ambientazione “sociale”, qua un elegante stabile ottocentesco di fattura haussmanniana, là i caseggiati popolari della banlieue. Tratto dall’omonimo romanzo di Pit Agarmen, il lavoro di Rocher rappresenta l’ennesima declinazione di un genere, quello della home (a questo punto sarebbe più corretto dire della city) invasion, ampiamente scandagliato e saccheggiato dal cinema, già pochi anni dopo l’uscita, nel 1968, del leggendario capostipite a firma George A. Romero. L’approccio del regista francese è lontanissimo dall’adrenalina, dai ritmi forsennati e dalla spettacolarità visiva del sudcoreano Train to Busan (2016) o dello statunitense World War Z (2013) – non ultimo perché non ha a disposizione lo stesso budget – né ha la freschezza agreste di Les Affamés (2017) del canadese Robin Aubert o la sorprendente originalità di Aterrados – Terrified (2017) dell’argentino Demián Rugna. The Night Eats the World sceglie piuttosto un registro analitico e riflessivo, ponendo l’accento sulla snervante attesa e sulla solitudine psicologica del protagonista. Al netto di qualche ingenuità di troppo e di una sospensione dell’incredulità portata all’estremo, la pellicola si dilata nel racconto della routine che il protagonista cerca pian piano di costruirsi attorno, tra una corsa mattutina e l’ascolto di una canzone, riduce al minimo i dialoghi e il campo d’azione, concentrandosi scenicamente nella stanza in cui Sam “si ricovera” e negli ambienti dell’edificio e metaforicamente nella mente del protagonista. Rocher appare debitore di un testo come Manuale per Sopravvivere agli Zombie di Max Brooks o della serie televisiva The Walking Dead piuttosto che degli epigoni romeriani più sanguinolenti o politicamente impegnati. I non-morti sono sparring partner occasionali da intrappolare in un ascensore guasto o da spiattellare con un fucile ad aria compressa recuperato dai vicini suicidi, non forniscono materiale sul quale indagare al fine di risalire ad una plausibile spiegazione scientifica o ad una possibile cura che ne eviti il contagio o addirittura ne restituisca l’umanità – una prospettiva, ad esempio, tratteggiata con maestria dal recente The Cured diretto da David Freyne – limitandosi a procurare giusto una manciata di jump-scare non privi di una certa venatura umoristica e grottesca. Il peso della pellicola ricade quindi interamente sulle spalle di Anders Danielsen Lie, antieroe “millennial” scarsamente empatico ed abitudinario, indotto a cercare uno spiraglio di “consueta normalità” all’interno di uno scenario apocalittico. Inevitabilmente, ansia e solitudine finiscono progressivamente con il minarne lo stato psichico, ma al contempo la necessità e l’istinto di sopravvivenza lo portano ad aguzzare l’ingegno per procurarsi acqua, cibo e sicurezza. A Rocher non interessa spaventare (gli zombie sono quasi sempre ripresi in pieno giorno e in campo lungo) quanto, piuttosto, invitare a riflettere sull’alienazione moderna prodotta dalle metropoli e sull’evoluzione interiore del protagonista, tentando una rilettura del genere in cui minimalismo e vena intimista si coniugano con la fantascienza e l’orrore, senza dimenticare la lezione di un classico come Io Sono Leggenda di Richard Matheson. In La Nuit a Dévoré le Monde i non-morti sono un pretesto per condurre un’indagine quanto mai umana sulla sopravvivenza e sulla solitudine, tra una panoramica sulla città ed un interno abbandonato, tra un gesto di carità ed una caccia spietata, alla ricerca di una cifra stilistica peculiare sostanzialmente raggiunta dall’autore.

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