#TS+FF2019 – In The Trap, di Alessio Liguori

Un horror claustrofobico dal notevole valore formale e tecnico. Più The Others che L’esorcista, è costruito in “assenza”, riportando in auge le nostre paure primordiali

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Presentato in anteprima mondiale e in concorso ufficiale al Trieste Science + Fiction Festival, nella competizione Neon per il Méliès d’argentoIn The Trap comincia nel 1995 a Devon, Inghilterra. Qui il piccolo Philip assiste terrorizzato alla terribile morte della sorella, per mano di una presenza malvagia e sconosciuta. Dopo un salto temporale di anni, ritroviamo Philip cresciuto (Jamie Paul), ma ancora apparentemente prigioniero di se stesso e del suo appartamento, in cui si barrica per proteggersi da quello stesso spirito  dell’infanzia, che lo perseguita ogni notte, desideroso di entrare, arrivando ad impossessarsi dei suoi affetti più cari.

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Una storia di esorcismi e “fantasmi”, in linea teorica quindi già abbondantemente vista sul grande schermo, ma che Alessio Liguori (al suo primo lungometraggio in lingua inglese) gestisce curiosamente puntando proprio alla tradizione come base contenutistica, aggiungendoci però al tempo stesso una notevole cura formale come personale cifra stilistica. Ed è così che ai cliché del genere, ai continui e ripetuti jumpscare, il regista fa corrispondere la costruzione aderente e precisa di un’atmosfera inquietante, una fotografia “invadente” e suggestiva, l’insospettabile trasformazione di dettagli e ad oggetti apparentemente innocui in una chiave spaventosa, fino ad un’attenzione del sonoro elevata e fortemente efficace (e finalmente, verrebbe da dire, per una produzione italiana; almeno in tempi recenti). Un aspetto, quest’ultimo, che vale già da solo da valore aggiunto, non a caso messo in risalto fin dall’inizio, con le urla assordanti della piccola vittima, alle quali seguirà il silenzio assoluto e altrettanto angosciante dell’appartamento.

Proprio la casa, probabilmente ancor più di Philip, è l’assoluta protagonista del film, che a sua volta si regge sulle sue fondamenta. Liguori, presente al Festival per presentare il film, ha d’altronde raccontato che la lunga gestazione produttiva affrontata dalla pellicola, è stata dovuta proprio perché al fatto che lui stesso poneva come “clausola” quella di dover costruire da zero il set, senza quindi usufruire di un’abitazione già pronta. Ed eccolo, allora tappezzato di croci e santini, in cui la macchina da presa ama inoltrarsi, soffermandosi nei suoi luoghi più oscuri, passando però sempre da un corridoio alla Shining, vuoto, conturbante quanto ricorrente. L’intento è chiaramente quello di mirare alle nostre paure più recondite e primordiali, colpendo lo spazio che consideriamo più sicuro, quello della nostra casa, della nostra camera da letto, come faceva Alejandro Amenábar in The Others. Protagoniste diventano le nostre credenze e suggestioni infantili (a volte anche forzatamente): la casa di In The Trap è infatti quella casa della “nonna” che in fondo da bambini ci spaventava, replicata “in scala 1:1” verrebbe da dire, dal tubo catodico all’arredamento, antiquato quanto “sacrale”.

Quello di Philip, tra statue religiose e candele che fiocamente illuminano tutta l’abitazione, è così un piccolo santuario. La componente religiosa è dopotutto fondamentale nell’immaginario dell’esorcismo, ma più che quello cinematografico e spettacolarizzato de L’esorcista, Liguori riprende quello popolare e remoto. Il riferimento è piuttosto quello de The Exorcism of Emily Rose, per sua stessa ammissione, cercando di rimanere più aderente al “reale” possibile. Ma se il film di Scott Derrickson faceva della contrapposizione tra fede e scienza il suo principio fondatore, In The Trap si preoccupa solo della prima. Con essa caratterizza non solo l’ambientazione, la storia, ma anche il suo protagonista, un uomo “timorato”, di Dio e più in generale della vita, che reprime i propri istinti ed emozioni, malgrado il suggerimento di Padre Andrew (figura paterna e amichevole, che lo accompagna fin dall’infanzia, interpretata dal David Bailie di Pirati dei Caraibi) che ad inizio pellicola gli dice proprio di aprirsi ad essa.

Come la fede, allora, chiede ai propri discepoli di credere al suo “mistero”, così Liguori chiede allo spettatore di affidarsi al mistero di Philip e alla sconosciuta ragione che lo tiene ancorato a quella casa maledetta. Partendo da questo, lo stesso film di conseguenza risultato bloccato proprio come il suo protagonista, a questo punto anche volutamente ma col rischio controproducente di dare l’impressione di privilegiare più i dettagli e l’atmosfera, rispetto al resto. Risulta così a lungo difficile entrare in sintonia con Philip, di cui conosciamo poco, pur vedendolo per per la maggior parte del tempo in solitudine. E quei pochi che ruotano attorno a lui, venendo dall’esterno, si trasformano presto in minacce, esattamente come lo è quella demoniaca che lo tormenta. Da qui deriva sicuramente lo spunto più interessante, perché quella dicotomia tra dentro e fuori la casa, Liguori la fa corrispondere all’interiorità del protagonista, costruita “in assenza”, proprio come il demone che non vediamo mai. Fino a quando, in una svolta improvvisa, coraggiosa e potente, la spiegazione alla sua condizione e al suo vissuto arriva davvero (anche se in tempi, forse colpevolmente  tardivi), dando il via ad un climax insospettabile nonché intrigante nel suo continuo ribaltamento. Una conclusione che esalta il film (facendo al tempo stesso sorgere qualche rimpianto), mantenendosi comunque coerente con il suo stile, ossia “giocando” con la tradizione e, soprattutto, con le nostre emozioni, fino alla fine.

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