#TSFF30 – 30 anni in Europa

Il racconto della trentesima edizione del Trieste Film Festival, da poco conclusasi, e delle anteprime italiane presentate durante la manifestazione: Ága, I Ponti del Tempo, Alla ricerca di Europa

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Quello che subito si avverte approdando al Trieste Film Festival è indubbiamente la sua atmosfera unica e appassionata, sia in chiave artistica, verso un cinema europeo centro orientale di cui è da anni un riferimento essenziale tanto per il nostro paese quanto nei loro, sia in chiave culturale, con la sua volontà continuamente dichiarata e puntualmente dimostrata di confrontarsi con i popoli lontani, solo geograficamente. Filo conduttore dell’intera edizione in occasione del suo storico trentennale, allora, non può che essere proprio la necessità di un’Europa più unita, il bisogno di una nuova e più stretta vicinanza, se non politica quantomeno umana.

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ÁGA, di Milko Lazarov

Lungometraggio fuori concorso, presentato in anteprima all’ultima Berlinale, ancora inedito in Italia, Àga del bulgaro Milko Lazarov ha vinto il premio come Miglior film al festival di Sarajevo. Al centro della storia ci sono Nanook e Sedna, che vivono in una iurta nelle terre innevate del Nord, seguendo le tradizioni dei loro antenati. Lazarov nella prima parte della pellicola si concentra sull’estrema particolarità del loro vivere, inquadrandoli quasi come gli ultimi esseri viventi sulla Terra. Regna quindi un’atmosfera ancestrale quanto affascinante, dove l’anziana e amorevole coppia cattura lo sguardo dello spettatore per l’eccezionalità delle sue abitudini, inquadrate, non a caso, pedissequamente dall’autore.
Nelle note di regia, d’altro canto, Lazarov scrive proprio che a interessarlo maggiormente nella realizzazione del progetto era “vedere anche come quelle stesse persone, che vivono in condizioni insopportabili per l’uomo moderno, siano riuscite a preservare la tenerezza nelle loro relazioni interpersonali e affrontino la vita quotidiana sorridendo e in modo empatico“. Volto perfetto, in questo senso, è quello austero, saggio e senza tempo di Mikhail Aprosimov, interprete del protagonista Nanook. Senza tempo è anche la sua caratterizzazione, fatta di massime salomoniche recitate ad ogni giusta occorrenza, di silenzi eterni quanto significativi. A parlare per lui e per il regista è il dichiarato simbolismo che si respira sulla scena, che spinge sulla dialettica tra la toccante umanità dei personaggi e la natura che li circonda, ora poetica e ispiratrice ora violenta e nemica, confluendo in un amore che sopravvive con forza anche alla bufera più spaventosa.
La seconda parte della pellicola prende piede con la visita del figlio Chena, unico legame con il mondo esterno e soprattutto con la Àga del titolo, ossia la figlia che ha lasciato la tundra ghiacciata molto tempo prima a causa di una lite familiare. Quando la salute di Sedna peggiora, Nanook dedica di esaudire il desiderio di lei, iniziando un lungo viaggio per ritrovare la figlia. Ed è qui che Lazarov scopre le sue carte sull’altro tema del film, quello più sociale e ambientalista, introdotto già nella prima parte con i cambiamenti climatici che influenzano, negativamente, la vita dei due protagonisti. La caccia infatti è diventata sempre più difficile, gli animali intorno a loro stanno morendo inspiegabilmente e il ghiaccio ogni anno si scioglie sempre prima. Il viaggio alla ricerca di Àga non fa che premere maggiormente sull’infinita e immensa bellezza dei paesaggi glaciali che dominano le lunghissime profondità di campo di Lazarov, destinati con profonda tristezza ad un’ingiusta rovina. Tra note di regia di Lazarov, d’altro canto, si può leggere ancora: “sono stato a lungo affascinato su come il progresso, che non sembra avere nulla a che fare con loro a prima vista, possa avere invece un effetto fatale sulla vita di intere popolazioni. La mia intenzione con questo film era di vedere come le civiltà moderne sfidano la volontà di preservare le tradizioni tipiche delle comunità che vivono nel Nord del mondo“. 

LAIKA TILTIÙ – I Ponti del Tempo, di Audrius Stonys e Kristīne Briede

Altra anteprima italiana, presentato nella sezione Born in Trieste (ossia nei film nati nell’ambito dell’evento interno al festival, When Easts Meet West), Laika Tiltiù (I Ponti del Tempo/Bridge of Time) è un film realizzato a quattro mani dai registi Audrius Stonys e Kristīne Briede, già in concorso al festival di Karlovy Vary. I due autori, rispettivamente lituano e lettone, mettono in scena un meta-documentario, fortemente moderno, capace di riflettere con lodevole perspicacia sull’evoluzione del genere cinematografico attraverso il suo luminoso passato.
All’inizio degli anni ’60 quando i pionieri francesi del cinéma vérité fissavano le regole per un nuovo realismo, i Paesi Baltici videro infatti la nascita di una generazione di documentaristi che preferivano una visione più romantica del mondo che li circondava. Laika Tiltiù pone il suo focus principale proprio sul cinema documentario baltico, che durante il periodo sovietico svolse un ruolo importante, soprattutto in rapporto a quello svolto dai film di propaganda. A differenza del cinema ufficiale, infatti, preferiva mettere l’accento sulle immagini, utilizzava metafore ed era allo stesso tempo un inno poetico alla vita e all’umanità. Stonys e Briede recuperano allora le opere fondamentali di quel cinema, mostrandole quindi con gli occhi di oggi, a metà tra la sentita celebrazione e l’intrigante analisi tecnica e linguistica. Il ponte del tempo diventa allora il cinema stesso, con i due autori che sfoggiano notevoli raccordi di montaggio ad unire le immagini del passato e del presente, creando un unico e continuo flusso narrativo.
L’aspetto più interessante della pellicola, inoltre, è nella contrapposizione tra la realtà catturata dai documentari e la “finzione” della messa in scena realizzata dai maestri del passato. Al repertorio storico, infatti, Stonys e Briede aggiungono le interviste ai diversi registi (Herz Frank, Uldis Brauns, Ivars Seleckis, Mark Soosaar, Andres Sööt, Robertas Verba, Henrikas Šablevičius e Aivars Freimanis) che tornano a decenni di distanza sulla realizzazione di quei capolavori. Indagando sulle storie dietro le quinte, l’effetto paradossale è invece proprio quello di un maggior realismo. Il discorso meta-narrativo alla base finisce infatti per essere soppiantato da quello, in chiave anche più emotiva, della trasformazione della società, della cultura e soprattutto delle persone.

ALLA RICERCA DI EUROPA, di Alessandro Scilitani

Presentato nella sezione Eventi Speciali, alla sua prima assoluta davanti a un pubblico, il documentario Alla ricerca di Europa di Alessandro Scilitani in qualche modo racchiude i temi dominanti di questa trentesima edizione del TSFF. Innanzitutto per il carattere multi-etnico che lo contraddistingue: di produzione italiana, l’azione si svolge su di una barca inglese, Moya, che ha passato gran parte della sua esistenza in Inghilterra, prima di essere acquistata dallo skipper Piero Tassinari, docente di Greco antico e Latino all’Università di Cardiff, città in cui è scomparso nel 2017 all’età di 52 anni.
In secondo luogo, poi, il film nasce dal bisogno di Piero Tassinari, in primis, e dello scrittore triestino Paolo Rumiz di mostrare cosa significhi essere europei, quindi rintracciare dove nasce Europa. L’equipaggio protagonista del documentario on the sea viaggia infatti nel Mediterraneo, tra la Turchia e la Grecia, ponendo di volta in volta alle diverse personalità incrociate sulla via la domanda “Dov’è Europa?“, riferendosi alla mitologia greca e non al continente. Secondo il mito, infatti, Europa nasce in Oriente, nelle terre dei Fenici, prima di essere rapita da Giove, innamoratosi di lei, che la porta via mare in Occidente dopo averla ingannata sotto le sembianze di un mansueto toro bianco. Da qui l’idea di trasformare Moya in un toro, piazzandole due corna sulla prua, a simbolizzare la ricerca di Europa del titolo.
Il riferimento erudito e insistito al mito rivela una caratteristica fondamentale del documentario di Scilitani, di stampo indubbiamente didattico ma senza risultare affatto stucchevole, anzi. Affida di fatto al capitano Tassinari la gestione della narrazione, tra digressioni storiche sui luoghi in cui Moya approda e scambi divertiti e filosofici con Rumiz e il resto della compagnia. Da una sua iniziativa, come anticipato, parte d’altronde il progetto del film: “un giorno Piero mi scrisse di avere un’idea. – racconta lo stesso regista – Lui, che da Trieste era andato a vivere in Galles, sentiva l’esigenza di raccontare ai suoi studenti cos’è l’Europa, quello che perderanno una volta completata la Brexit“.
E la storico risultato del referendum britannico, insieme alla situazione economica greca e il suo debito nei confronti dell’Europa, oltre ovviamente al sempre attuale tema dei migranti, vanno tutti a formare il sottotesto politico e sociale alla base di tutto il viaggio. Scrive ancora Scilitani: “quasi nessuno, purtroppo, sa evocare il mito. Tutti, davanti alla parola Europa, parlano di banche, di Germania, di paure“, a confermare che sono le risposte (e le incomprensioni) degli interrogati dalla troupe l’aspetto più interessante della pellicola, poiché rispetta una delle funzioni più importanti del genere cinematografico, ossia dar voce a chi invece viene troppo spesso dimenticato dalle cronache “ufficiali”. Tecnicamente forse non impeccabile, soprattutto sulla tempistica delle scene, Scilitani ha però il merito, infine, di restituire un’atmosfera intellettuale, oltre che piacevolmente poetica e romantica, al viaggio di Moya. “Mi sono incantato a raccogliere le storie, i racconti, le idee di Piero“, e il commosso omaggio all’amico scomparso si respira fortemente in questa storia di ricerca di umanità, di sentita passione per la Storia e per un passato comune, ora tristemente dimenticato. 

WIND OF CHANGE 

Gli ultimi giorni di festival si passa dalle ampie sale del Politeama Rossetti e del Cinema Ambasciatori a quella più intima, ma non meno suggestiva, del Teatro Miela, la quale ospita la retrospettiva Wind of Change, che presenta alcuni dei migliori film passati nei 30 anni di manifestazione.
La visione delle pellicole conferma quanto evinto già dall’incontro di presentazione, ossia lo spirito di comunione tra culture lontane, l’importanza del festival per tutto il cinema centro orientale, in termini sociali nonché di giusta visibilità per opere assolutamente meritevoli. L’opportunità di rivedere opere lontane anche trent’anni, inoltre, impreziosita dalla presenza nella maggior parte dei casi dei registi in sala, non può che portare a diverse riflessioni su quanto il mondo sia cambiato e, dall’altra parte, su come invece certe cruciali problematicità siano ancora attuali come non mai.
Il viaggio comincia allora dal 1989 con il delizioso Sono seduto sul ramo e mi sento bene di Juraj Jakubisko, passando per il ’94 dello storico Prima della pioggia di Milcho Manchevski (vincitore del Leone d’Oro alla 51esima Mostra di Venezia), per arrivare a ridosso degli anni 2000 (’99 per la precisione) di Simon il mago di Ildikò Enyedi e Periferia Nord di Barbara Albert. Pur naturalmente con storie e ambientazioni totalmente diverse, non è difficile trovare il già menzionato filo comune tra i tanti capolavori, oltre ovviamente alla loro ineccepibile qualità: innanzitutto le numerose lingue parlate anche all’interno dello stesso film, come in Sono seduto sul ramo e Simon il mago per esempio, in entrambi i casi inizialmente la causa di incomprensioni comunicative tra i protagonisti, poi superate grazie all’umanità e all’affetto che arriva ad avvicinarli; le profonde barriere culturali e politiche tra i popoli, che danno vita a una spirale di violenza infinita e insensata che fa sempre più vittime innocenti, come la dolce e tormentata Ester di Sono seduto sul ramo, come i protagonisti di Before the rain colpiti tanto in Inghilterra quanto nella lontanissima Macedonia; ma a vincere è la potente e insospettabile ironia, che sconfina nella tenerezza più pura, che si respira ancora nell’opera di Jakubisko, come in quella di Enyedi, fino al dramma sociale di Periferia Nord, tutti accomunati dalla capacità di sorridere anche di fronte alle avversità più dure. E alla fine della rassegna è proprio una positiva e, forse, ingenua sensazione di speranza ciò che la manifestazione triestina riesce a donare, più di ogni altra cosa, ai propri spettatori.

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