"Tutta colpa dell'amore", di Andy Tennant

La migliore regista di se stessa è proprio Reese Witherspoon, capace di imporre sul set impercettibili deviazioni di senso attraverso le quali far scartare la visione di almeno due diversi livelli.

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Piccolo consiglio: non perdetevi (perlomeno a noleggio) La rivincita delle bionde, una delle opere più interessanti dell'anno passato, vero e proprio deposito di rimasticamenti deliziosi di una commedia classica oggi sempre più rara. Detto questo, passiamo al remake impossibile di quell'opera che a tutti gli effetti è questo Tutta colpa dell'amore, lastra fotogrammatica di movimenti a zonzo di un corpo interno/esterno rispetto al set che è quello di Reese Witherspoon, non a caso protagonista del film citato. Si tratta di ripercorrere con un andamento del tutto sballato itinerari assolutamente classici, rispolverando per l'occasione un tono stilistico che si addice perfettamente all'attrice americana. Tennant è uno di quei mestieranti che il cinema lo conoscono bene (suo lo sfavillante Anna and the King, non a caso altro remake), che non strafanno e che conoscono soprattutto molto bene certi meccanismi da rispettare. Nel film di oggi, la protagonista soffre di un interessante sdoppiamento: da una parte immersa in un contesto che la produce quale quintessenza della femminilità cara a tanto cinema americano degli anni '60, dall'altra figura in continuo movimento, destinata a riperpetuarsi tramite un moto che la disgiunge chiaramente da ogni assetto di tipo statico. Cerca di convincere l'ex marito a concederle il divorzio, visto che è innamorata del figlio del sindaco di New York, e per farlo ritorna nella natia Alabama in cui fa esperienza di un tempo nuovamente differente rispetto a quello frenetico della metropoli. Ecco allora la doppia cifratura dell'opera, inscritta sulla carne inquieta della Witherspoon: quella dettata da una scansione assolutamente classica del procedimento (andata/ritorno e così via), e quella impregnata di manicheismi irresistibili in cui si fa del cinema uno strumento ancora capace di contemplare al suo interno la linearità senza tempo di una superficie liscia e del tutto lineare. Senza togliere nulla a Tennant, ci verrebbe da dire che la migliore regista di se stessa però è proprio l'attrice americana, capace di imporre sul set impercettibili deviazioni di senso attraverso le quali far scartare la visione di almeno due diversi livelli. E' un po' il segreto dell'inossidabile gioco con un paradosso filmico di notevole pregnanza teorica e non: mimare vecchi sguardi rispettandone la portata formale, per poi riadattare il tempo della visione a registri visivi che sappiano ancora dirci qualcosa sull'oggi.

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Titolo originale: Sweet Home Alabama
Regia: Andy Tennant
Sceneggiatura: C. Jay Cox
Fotografia: Andrew Dunn
Montaggio: Troy Takakj, Tracey Wadmore-Smith
Musica: George Fenton
Scenografia: Clay A. Griffith
Costumi: Sophie Carbonell
Interpreti: Reese Witherspoon (Melanie Carmicheal/Melanie Smooter), Josh Lucas (Jake Perry), Patrick Dempsey (Andrew Hennings), Candice Bergen (Katherine "Kate" Hennings), Mary Kay Place (Pearl Smooter), Fred Ward (Earl Smooter), Jean Smart (Stella Kay), Ethan Embry (Bobby Ray Carmichael), Melanie Lynskey (Lurlynn), Courtney Gains (Wade)
Produzione: Stokely Chaffin, Neal H. Moritz per Touchstone Pictures/Original Film/Pigeon Creek Films
Distribuzione: Buena Vista International Italia
Durata: 108'
Origine: Usa, 2002

 

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