"Tutta colpa di Giuda", di Davide Ferrario
L'eclettismo incerto di Davide Ferrario sembrava aver trovato nella forma del musical la sua condizione naturale. Tutta colpa di Giuda poteva essere una briosa riflessione sulla condizione del sistema carcerario italiano, per quanto appesantita da espliciti riferimenti cristologici. Purtroppo, il regista non riesce a tarpare il suo protagonismo autoriale, e nell'ultimo fotogramma entra nel film rivelandone la paternità e la finzione.
Una croce svetta nel grigio cortile del carcere torinese: prima che la mente vada alla memoria di esecuzioni in sala mensa, bisogna subito mettere le mani avanti e dire che a Davide Ferrario manca il gustoso cinismo di un Luciano Salce. Così, pur provando a fare una commedia, il suo ultimo film si risolve in una lunga e verbosa disquisizione sullo stato delle carceri italiane, fatta dalla mano di chi non vuole fare una riflessione indiretta, ma un vero e proprio discorso diretto, costruita dietro la metafora della Passione di Cristo: colpa, espiazione, libertà, sacrificio, ergastolo, condanna… Sono tutte parole rituali che – forse non troppo sicuro delle associazioni mentali dello spettatore – il regista inserisce esplicitamente, come oggetti scenografici, nel musical che la bella Kasia Smutniak (che si può inserire tra le note liete) sta allestendo con i detenuti, scatenando le ovvie ire del corpo religioso dell’istituto per la libertà dell’interpretazione evangelica. Eppure, Ferrario stavolta ci ha provato con ogni mezzo: e si era anche avvantaggiato del fatto che la sua impossibilità di resistere ad inserire lunghi videoclip nei suoi film questa volta si potesse fondere con la scusa del musical, risultando così meno pesante che in passato. Il ruolo preponderante della colonna sonora – i brani sono scritti per lo più dai Marlene Kuntz, il cui cantante si ritaglia persino una parte – regala un momento anche ben riuscito come l’esecuzione realizzata con strumenti improvvisati. Anche l’eclettismo alla buona (o è solo incertezza?) del regista, che qui dispensa inquadrature sghembe di architetture fredde, diverse tecniche di ripresa, momenti di vero e proprio documentario che si uniscono a momenti comici e a tratti di fiction vera e propria – la storia d’amore tra la teatrante e il direttore, gli archetipi del sottogenere carcerario – apparivano meno invadenti ed imbarazzanti del passato. Forse, liberate dalla spontaneità dei protagonisti e dalla leggerezza della Smutniak, le zavorre che appesantiscono il cinema di Ferrario si scontravano solo con le ambizioni analogie cristologiche: tanto che ad un certo punto si avvertiva la voglia di dare ragione al direttore del carcere, che davanti alla nuova discussione tra arte e fede sottolineava spazientito che alla fine pubblico, attori e maestranze fossero in un carcere, o al cinema, e non in un’aula di filosofia. Tuttavia, il suo protagonismo autoriale non è riuscito a contenersi fino alla fine, e nell’ultimo fotogramma si è messo in evidenza palesandosi sullo schermo, rompendo l’illusione della diegesi con una voce fuori campo che lo chiamava in causa: come se il cinema italiano avesse stretto bisogno dell’ennesimo emulo di Godard.
Interpreti: Kasia Smutniak, Gianluca Gobbi, Luciana Littizzetto, Fabio Troiano, e i detenuti del carcere di Torino, sezione VI blocco A
Distribuzione: Warner Bros. Italia