"Tutti abbiamo dimenticato quello che è successo nei Balcani." Incontro con Isabel Coixet.

Pluripremiato al Premio Goya 2006 "La vita segreta delle parole" ripercorre le vicende delle donne vittime della guerra dei Balcani. E' un film sul peso del passato. Ce ne parla la regista.

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Il film è sostenuto da Amnesty International contro la violenza alle donne e sarà presente al prossimo festival di Sarajevo: perché voler ricordare con questa storia le torture della guerra?

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I. C.: Mi ricordo che mentre era in corso la guerra nei Balcani ero ossessionata dalle vicende. Ci pensavo molto. All'epoca lavoravo a Milano come regista di pubblicità ed un giorno, all'aeroporto di Linate, ascoltando l'annuncio del volo per Sarajevo mi si è fissata l'idea di voler fare assolutamente qualcosa. Ho iniziato a raccogliere materiale con il quale ho poi realizzato un documentario sulle donne di Sarajevo. In passato avevo già fatto un documentario su una piattaforma petrolifera nel sud del Cile, da queste due esperienze ho avuto l'idea del film. Ho conosciuto tantissime donne che hanno vissuto ed hanno attraversato esperienze anche peggiori del film. C'è chi è sopravvissuta ed ha raggiunto un equilibrio, una gioia di vivere, e chi è sopravvissuta  ma con la morte dentro. Molti dicono che i miei film sono duri ma io penso siano invece delle fiabe. Quando una pellicola non è un documentario, un regista crea ciò che vuole, racconta ciò che gli piace. Io cerco di fare dei film dove mostro come sono le cose, con i risvolti sia positivi che negativi. Bisogna sempre oscillare tra ciò che vuoi che sia e quella che è invece la realtà. I miei protagonisti hanno bisogno di giustizia e l'amore ti dà sempre un motivo per vivere. Alle riprese è stata sempre presente una donna croata che ha dato un grosso contributo. Tutti abbiamo dimenticato quello che è successo nei Balcani.


 


Lei non sente e lui non vede: il messaggio è che l'orrore si supera con l'isolamento?


 

I. C.: La piattaforma rappresenta un posto difficilissimo in cui viverci ma dove si vorrebbe fuggire per stare lontano da tutto. Rappresenta però anche il luogo dove alla fine ti rendi conto che non puoi fuggire da ciò che ti appartiene, da ciò che hai dentro. Io penso che capire ciò che succede altrove si può per empatia personale, ma il vissuto vero non può essere compreso dal di fuori. A me interessava parlare del dramma di due amiche che all'improvviso si trovano al centro di una tragedia che condizionerà totalmente il resto della loro vita. La protagonista vive nel silenzio che la sordità le impone e non parla di sé per quasi tutto il film, poi all'improvviso scoppia nel suo racconto. Il silenzio a volte sa essere eloquente tanto quanto le parole.

Fino a che punto i personaggi sono reali?


 


I. C.: I protagonisti non sono reali anche se la storia di Hanna rappresenta le vicissitudini di tante donne di guerra. Avevo scritto il ruolo di Hanna proprio per Sarah Polley con la quale avevo già lavorato ne La mia vita senza me. Trovo sia una delle atrici più meravigliose della sua generazione per la capacità che ha di trasformarsi. Il suo è un ruolo difficile, senza punti di riferimento, ma con la sua interpretazione è riuscita ad emozionare più volte me e il resto della troupe. A Tim Robbins ho pensato subito dopo aver concluso la sceneggiatura, ma mai avrei creduto in un suo interesse alla storia. Invece mi ha risposto subito dopo solo una settimana dall'invio del copione. Il personaggio interpretato da Julie Christie è l'unico reale. E' una donna che ho conosciuto personalmente ed alla quale ho dedicato la mia pellicola. Inge Genefke è il suo nome ed è il nome della piattaforma nel film. E' una neurologa danese che venti anni fa ha fondato un'associazione per il recupero delle donne torturate. Finchè ci sarà gente come lei che si adopera per gli altri, ci sarà sempre anche la speranza.


 


 


 


 


 


 

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