Tutto parla di te – Incontro con Alina Marazzi e Elena Radonicich

Alina Marazzi sul set

Dopo la proiezione in anteprima allo scorso Festival di Roma nella sezione Cinemaxxi, arriva il momento dell’uscita nelle sale per l’atteso esordio alla regia in un film di fiction per l’apprezzata documentarista italiana Alina Marazzi. In conferenza stampa oltre alla regista è presente anche l’attrice Elena Radonicich

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Alina Marazzi sul setDopo la proiezione in anteprima allo scorso Festival di Roma nella sezione Cinemaxxi, arriva il momento dell’uscita nelle sale per l’atteso esordio alla regia in un film di fiction per l’apprezzata documentarista italiana Alina Marazzi. In conferenza stampa oltre alla regista è presente anche l’attrice Elena Radonicich.

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C’è un legame profondo tra Un’ora sola ti vorrei e questo tuo film?

Si, un legame c’è, ovviamente il rapporto madre figli. Tutto parla di te forse inizia dove Un’ora sola ti vorrei era finito, è un discorso che chiudo qui in un certo senso, ossia il tema del presente e del passato nella maternità. Il rapporto tra Pauline e Emma viene qui raccontato come un insieme di cose che molte donne conoscono bene. Oggi si chiama depressione post partum, cosa che molte donne e anche uomini conoscono per esperienza. I due titoli poi hanno sempre dentro l'idea di un interolocutore, voglio dire che il film parla anche di te spettatore e non solo dei personaggi.
 

E il progetto del Web ducmentario Tutto parla di voi?

Si, sulla rete abbiamo chiesto agli utenti di partecipare, un esperimento di narrazione partecipata che affronti i temi posti dal film, mandando le proprie storie. Noi stessi abbiamo inserito contributi. Il mio film è chiaramente ispirato a storie vere, lo spirito documentaristico è presente e vivissimo.

Questa è stata un'elaborazione molto lunga, il tempo è stato un peso nella produzione?

Diciamo che questo tipo di film che si propone con un linguaggio un po’ diverso dal solito è difficile da pensare sia a livello artistico, ma soprattutto a livello produttivo. Ma devo dire che questo tempo mi è servito per capire bene come raccontare il tutto, ero partita dal documentario ovviamente, ma poi il film di finzione ha preso il sopravvento. Ma come fare? Ecco che la fase di scrittura è stata importante per mescolare tutti gli apporti che avevo in mente (animazione, fotografia, archivio, diario, fiction) che mescolati insieme dovevano diventare il mio film. In un documentario come Vogliamo anche le rose è più semplice questa fase, se c’è una storia di finzione dietro è un po’ più complesso e l’aspetto produttivo richiede più tempo.

Dopo cortometraggi e molto teatro, questa è la tua terza esperienza al cinema, come sei arrivata?

Radonicich: Aspettavo un film così importante, sono entrata in un modo molto classico, con un provino, entrando pian piano nella realtà della maternità che mi era del tutto sconosciuta. Un ingresso lento, morbido, nel mio personaggio. Da quando sono entrata nel progetto a quando lo abbiamo girato il tempo è stato abbastanza lungo, quindi la preparazione mi ha dato il modo per capire bene il mio personaggio.

Che tipo di idea ti sei fatta sul film?

Radonicich: Le mie idee sulla maternità prima del film erano molto favolistiche. Fare questo film mi ha messo in relazione con l’idea che la maternità è uno di quegli eventi nella vita di una persona che riduce allo stato primo dell’umanità, rappresenta qualcosa di assoluto, cosa che io nella mia vita non avevo mai avuto modo di vivere. Il mio personaggio in fondo non ha una sofferenza speciale, la depressione post partum è una cosa molto diffusa, mi son documentata e poi ho immaginato come ci si potesse sentire. Affrontare un tabù era il centro.

Marazzi: come attrice tu hai utilizzato proprio la paura dell’interpretare un personaggio distante da te e l’hai usata nella distanza vissuta dal personaggio verso il figlio. Mi è sempre piaciuta questa tua idea.

Radonicich: Assolutamente, io non avevo mai avuto a che fare con bambini, quindi questa mia distanza l’ho usata e l’ho messa nel mio personaggio che come madre sentiva un'intima distanza dal figlio.

Con la Rampling come è andata?

Paura vera, terrore, al primo appuntamento! Lei è nota per il suo spetto ieratico, forte, apparentemente freddo, era perfetta per Pauline, un misto di forza e fragilità, una complessità che è esattamente il vissuto di ogni persona. Lei è una persona molto generosa, le è piaciuto il progetto e nel momento in cui ha detto si è stata dentro al 100 per 100. Lei dice sempre di essere un’attrice istintiva, crede nell'“essere” più che fare. Un bell’incontro umano e professionale, un’occasione anche di tornare a recitare in italiano, portare quella fragilità nel parlato da attrice straniera. Mentre si preparava per le riprese del film poi, ascoltava musica italiana e amava molto Franco Battiato.

Radonicich: il rapporto con Charlotte. Si, non ho praticamente parlato con lei per un mese. L’ho osservata a lungo, lei è stata molto carina a lasciarmi fare, a trovare la calma necessaria per relazionarmi con lei. Ha avuto uno sguardo di grande comprensione come donna e attrice, mi comportavo praticamente come il mio personaggio, ma non per scelta d’attrice. Mi ha raccontato come riflette sui personaggi, come immagina per molto tempo le cose che accadranno per poi andare istintivamenter sul set. Il nostro rapporto è stato delicato, guardarla mi calmava delle mie ansie di attrice.

Come si affrontano gli archetipi senza scadere nel luogo comune? Come avete arginato questo rischio?

Da un lato bisogna utilizzare gli stereotipi, confrontarsi con la rappresentazione della maternità non è certo semplice, ma a me interessava quello. I modelli: in che cosa ci rispecchiamo noi donne quando si diventa madri? Solo in quel momento capisci quanto hai interiorizzato l’idea favolistica della maternità, immaginario che ci rimanda un’immagine falsata di noi stessi. Il film vuole creare un cortocircuito che metta in discussione questo immaginario, un cortocircuito tra chi si è e chi si immagina di essere.

Ci sono poche rappresentazioni maschili, volutamente?

Si è una scelta, anche se in sceneggiatura il compagno di Emma c’era di più poi al montaggio è stato un po’ sacrificato. Chiaro che l’idea era quella di rappresentare il mondo di una donna, non mi interessava rappresentare una famiglia, forse è meno importante di un tempo quella dimensione. La dimensione famiglia è un po’ più sfumata oggi e in un momento di fragilità come la maternità forse è addirittura più facile e liberatorio parlare con qualcuno al di fuori della famiglia. È difficile per i compagni, per gli uomini, stare accanto a una donna in difficoltà, l’aiuto altrove è più semplice e salutare. Non mi interessava insomma soffermarmi sul rapporto di coppia, volevo che l’accento cadesse su altro.

“La maternità è un privilegio si dice nel film”. C’è uno sguardo femmilità sul mondo? 

Il privilegio credo che sia ricondotto alla relazione. È una frase che dice una persona che ho intervistato e a volte si soffre il fatto di non godere di questo privilegio. Ecco, è la relazione, il prendersi cura dell’altro, cosa che andrebbe agita maggiormente in tutti i settori sociali. La relazione e la cura dell’altro è un privilegio che in senso lato non dovrebbe essere buttata via. Le frasi di quelle interviste creano un discorso che si intreccia con la storia del film. Le antieroine dei miei film confinano i loro sentimenti in pagine di diario, un vissuto privato, un’epica della normalità.

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