“Twilight of the Dead sarà il film che George Romero voleva”. Incontro con Paolo Zelati

Suzanne Romero, vedova del regista scomparso nel 2017 ha dato il via libera alla realizzazione del film lasciato incompiuto: nel progetto anche il critico italiano. Ecco il suo racconto in esclusiva

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È soltanto di pochi giorni fa la notizia che Suzanne Romero, vedova del grande regista americano scomparso nel 2017, ha dato il via libera alla realizzazione dell’ultimo film lasciato incompiuto dal marito: si tratta di Twilight of the Dead, quinto capitolo della saga dei morti viventi iniziata nel 1968 con La notte dei morti viventi. Un progetto fortemente voluto dal critico e giornalista italiano Paolo Zelati, amico e collaboratore di Romero, insieme al quale il regista ha scritto il trattamento che è stato successivamente tradotto in una sceneggiatura grazie all’aiuto di Joe Knetter e Robert L. Lucas.

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Come è nato il tuo rapporto umano e professionale con Romero?

L’ho conosciuto per la prima volta al Torino Film Festival nel 2001, in occasione della retrospettiva organizzata da Giulia D’Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto. Da quel momento in poi l’ho incontrato tantissime volte nel corso degli anni perché nel frattempo avevo cominciato le ricerche per il mio libro American Nightmares – Conversazioni con i maestri del New Horror americano. Lo seguivo dappertutto e tra me e lui nacque questa sorta di gioco, per cui se non mi vedeva in un festival cominciava a chiedersi che fine avessi fatto. Così è nata un’amicizia che ha avuto il suo culmine quando l’ho portato al Lucca Film Festival nel 2016, e subito dopo siamo andati in vacanza in Florida insieme a sua moglie Suzanne. Lì è nata l’idea per Twilight of the Dead.

I quattro film che compongono la tetralogia (La notte dei morti viventi, Zombi, Il giorno degli zombi, La terra dei morti viventi), escludendo quindi Diary of the Dead e Survival of the Dead che non ne fanno parte, hanno raccontato una sorta di evoluzione nella diffusione dei morti viventi, una progressione nella loro organizzazione parallelamente alla disgregazione della società umana. Twilight of the Dead proseguirà in tal senso?

Sì, Twilight of the Dead è il final step. Quello che c’è stato dopo La terra dei morti viventi, cioè i fumetti scritti da George e il romanzo I morti viventi, portato a termine da Daniel Kraus che ha fatto secondo me un gran bel lavoro, arrivava fino a un certo punto. Il pensiero di George sull’evoluzione del suo universo, sia da un punto di vista narrativo che metaforico, si era fermato lì. Twilight of the Dead sarà un gradino avanti. Sarà il finale della sua saga, in tutti i sensi. Tutto nasce da una domanda che feci a George una sera dopo cena: gli dissi in tutta franchezza che a me Survival of the Dead non piaceva e lui mi diede ragione. Gli spiegai che per me fondamentalmente non aveva molto senso, perchè la bellezza dei suoi film consisteva nel fatto che li aveva girati a intervalli di dieci, quindici anni, raccontando i cambiamenti avvenuti nel frattempo, quindi aver fatto Survival un anno o due dopo Diary of the Dead significava non avere niente da raccontare, e questo lui lo ha sempre ammesso senza farne un mistero. Da qui è nata da parte mia una specie di boutade da fan. Gli dissi: “guarda che non siamo molto contenti di questa cosa. Io avrò visto La terra dei morti viventi almeno cento volte, e ogni volta rimango con un po’ di amaro in bocca perchè voglio sapere dove vanno gli zombi alla fine, dopo che hanno attraversato il ponte”. Lui allora si è tolto gli occhiali, mi ha guardato e mi ha detto: “dimmi tu dove vanno”. E io glielo dissi, perché lo avevo immaginato cento volte. Da lì abbiamo cominciato a parlare, per cinque giorni non abbiamo fatto praticamente altro, e così abbiamo creato la storia che poi è diventata il trattamento di Twilight of the Dead.

Negli anni Novanta Twilight of the Dead era il titolo di lavorazione di quello che poi sarebbe diventato Land of the Dead, La terra dei morti viventi. Avete recuperato alcune idee di quella vecchia versione della sceneggiatura?

No, assolutamente, è qualcosa di totalmente nuovo. Anche perché la sceneggiatura di cui parli è rimasta fondamentalmente la stessa in Land. George apportò qualche modifica dopo l’11 settembre, perché comunque erano cambiate alcune cose nel frattempo. Mi ricordo che fu una delle prime cose che mi disse durante uno dei nostri primi incontri, pochi mesi dopo l’11 settembre. Commentavamo le foto che vedevamo sui giornali e sembravano identiche a La città verrà distrutta all’alba, con tutte quelle tute bianche. Nonostante alcune modifiche, quindi, La terra dei morti viventi è sempre stato La terra dei morti viventi. Twilight of the Dead invece è tutto nuovo, nasce dalla valutazione piuttosto amara da parte di George sull’ultimo periodo. Ma ovviamente non posso anticipare nulla della trama, perché sarà il gran finale. Il titolo lo abbiamo deciso alla fine e per noi questo era il più sensato, per due motivi. Il primo è perché, come hai detto tu, per anni era stato uno dei titoli di lavorazione del quarto film della saga. George sapeva che era nella mente dei fan, lo conoscevano già. Il secondo è perché è in linea con gli altri. Night, Dawn, Day e Twilight. Land, La terra, ovviamente è nel mezzo.

Quello che contraddistingue i film della tetralogia è che sono profondamente legati al proprio periodo storico. Lo sarà anche Twilight of the Dead, considerando che dalla morte di Romero a oggi sono passati solamente quattro anni, durante i quali però il mondo è radicalmente cambiato per i motivi che ben conosciamo?

Fino a pochissimo tempo fa vivevamo in un mondo in cui il presidente degli Stati Uniti era Trump, quindi puoi immaginarti benissimo cosa ne pensasse George. Erano gli anni delle bombe, degli attentati in strada con i camion, delle stragi in discoteca. George naturalmente non ha vissuto l’epoca del Covid, ma la situazione era piuttosto tragica anche prima. Però se ci pensi bene l’analisi metaforica dei suoi film non è soltanto legata agli snapshots. Ci sono assolutamente aspetti legati all’attualità, al consumismo, ci mancherebbe altro. Ma c’è anche un’evoluzione lenta della figura metaforica dello zombi in relazione al fatto che, come diceva sempre lui, “they are us”. È come uno specchio, è una riflessione sull’essere umano, su noi stessi. Come hai notato giustamente, nei film questa cosa evolve. Twilight racconterà proprio l’evoluzione di questo aspetto metaforico. Però allo stesso tempo è innegabile che sarà anche influenzato dalla situazione che stiamo vivendo, certo.

A proposito di influenze innegabili, nel tuo libro American Nightmares infatti lui raccontava che la sceneggiatura di La terra dei morti viventi era stata scritta molto tempo prima dell’11 settembre, che dopo quella tragedia fece soltanto dei piccoli aggiustamenti alla storia e che, in ogni caso, con il senno di poi oggi molti riferimenti saltano maggiormente all’occhio, come ad esempio la torre di Fiddler’s Green. Anche se naturalmente Romero non ha vissuto questo evento, pensi che la pandemia Covid sarà subliminalmente per Twilight of the Dead quello che l’11 settembre è stato per La terra dei morti viventi?

No, perché la sceneggiatura è stata scritta da me, Joe Knetter e Robert L. Lucas nei primi mesi del 2019. Twilight of the Dead sarà un film di George Romero. È suo. È quello che voleva fare lui. Ho letto molte illazioni in rete negli ultimi giorni, e in parte le capisco perché significa che c’è molta attenzione nei confronti del progetto. Quello che mi preme sottolineare però è che questo sarà il film di George. Noi lo faremo soltanto se verrà rispettata la sua volontà, se verrà mantenuta la struttura artistica che voleva lui.

Tom Savini sarà coinvolto nel progetto?

Ancora non lo so, ma mi piacerebbe molto. Una cosa molto bella che George voleva a tutti i costi era quella di finire col botto riunendo appunto tutta la vecchia squadra, quindi compreso Tom. Anche perché voleva utilizzare meno CGI possibile. Voleva fare una cosa un po’ alla Knightriders, riunendo tutta la sua famiglia di amici e collaboratori.

Come ti sei ritrovato a lavorare con Joe Knetter e Robert L. Lucas?

Molto bene, perchè il trattamento scritto da me e George era estremamente solido e dettagliato. Il finale, per esempio, è una di quelle cose che George aveva in mente sin dall’inizio e Joe, che è uno sceneggiatore navigato e molto bravo, ha riconosciuto subito il valore del materiale di partenza. Abbiamo lavorato trovandoci totalmente d’accordo sulle varie scelte e abbiamo dovuto semplicemente sviluppare il trattamento per trasformarlo in sceneggiatura. George aveva già iniziato a lavorarci, ma poi si è ammalato ed è morto pochi mesi dopo. Nell’ultima telefonata che feci con lui mi disse che avrebbe usato il 98% del trattamento. È una frase che mi ricorderò per sempre. Vuol dire che lui l’ha approvata, ed è questo che io voglio fare.

Durante i vostri numerosi incontri cosa ti raccontava dell’horror contemporaneo? Cosa ne pensava?

George non guardava mai film, non gli importava nulla. In vacanza però abbiamo passato le giornate a farci maratone di film noir e di classici come I migliori anni della nostra vita, oppure Il tesoro della Sierra Madre. Alla fine di Mezzogiorno di fuoco mi sono voltato verso di lui e aveva le lacrime agli occhi: ha allargato le braccia, ha fatto quel sorriso che mi manca tutti i giorni e si è messo a ridere piangendo. Questo è il cinema che piaceva a George. Mi ricordo che una volta abbiamo visto insieme il remake di Le colline hanno gli occhi, che a me piace addirittura più dell’originale, ma che a George ha fatto schifo. Amava molto Guillermo Del Toro, e gli unici film recenti di zombie che gli piacevano veramente erano Juan of the Dead e Shaun of the Dead. Guardava molto poco dell’horror contemporaneo, quasi niente.

Secondo te qual è oggi il significato della figura del morto vivente al cinema?

La figura del morto vivente nel cinema fantastico e nella letteratura ha praticamente sostituito i miti precedenti, dal vampiro al licantropo, e adesso è la figura metaforica più consona alla nostra dimensione contemporanea. Poi è ovvio, c’è chi lo usa in maniera intelligente e chi invece fa soltanto macelleria. Secondo me rimane una figura assolutamente eccezionale, ma ovviamente dipende da chi la tratta, e da come lo fa. Per esempio, ho visto da poco un film del 2009, The Revenant, e l’ho trovato molto interessante. Rimane ancora il mito fantastico più interessante per la nostra contemporaneità.

Sei l’ambasciatore per l’Italia della GARF (George A. Romero Foundation), raccontaci delle vostre iniziative.

La presidentessa è proprio Suzanne, che si è circondata di persone fidate che in passato avevano già lavorato con George. È una fondazione che collabora con l’università di Pittsburgh per preservare l’eredità di George, per conservare i suoi documenti e tutto il materiale che vari registi hanno donato dai proprio archivi personali in modo che possano essere consultati liberamente dagli studenti di cinema. Ultimamente hanno contribuito a recuperare e a rilanciare The Amusement Park, il film “perduto” che sarà distribuito nei prossimi mesi, ma sono ancora agli inizi. È una società nuova che purtroppo è nata in concomitanza con la pandemia, ma è dotata di grande entusiasmo, intenzionata a portare avanti iniziative a livello mondiale attraverso gli ambasciatori dei diversi paesi. Ce n’è uno in Giappone, uno in Inghilterra, uno in Francia e poi ci sono io. Tramite noi spero di poter realizzare tutte le cose che mi vengono in mente, con chi sarà disposto a farlo. Per ricordare George, per organizzare retrospettive in giro per il mondo. In America stanno già cominciando.

A che punto siete con la pre-produzione del film?

La sceneggiatura è completa, adesso abbiamo bisogno di trovare le persone giuste da coinvolgere nel progetto. Non sarà certamente un film facile da realizzare, ma quello che mi interessa maggiormente è preservare l’integrità artistica del lavoro di George. Ci vuole qualcuno che sia innamorato di lui e del suo cinema, che comprenda il suo universo con lo scopo di proteggerlo, e che come noi voglia portare avanti la sua eredità. Non vogliamo qualcuno intenzionato soltanto a sfruttarne il nome. Non lo permetteremo. Abbiamo l’opportunità di realizzare quella che è stata l’ultima volontà di George A. Romero.

Qual è il ricordo personale più bello che hai di lui?

Ne ho tantissimi. Le risate che mi faceva fare e che faceva anche lui. Soprattutto, quella capacità di comprendersi che avevamo soltanto guardandoci negli occhi e che io ho con pochissime altre persone. Per me lui non era più il regista di La notte dei morti viventi, negli ultimi anni era George e basta. Sembra retorica ma ti assicuro che è così. Era una persona umanamente straordinaria. Spesso ripenso a quella vacanza, mentre lavoravamo insieme, con lui che si alzava al mattino e ogni giorno veniva da me dicendo “man, we have something here. We have really something”, e poi giù a ridere. È questa dimensione umana che mi manca tantissimo di lui, tutti i giorni. Per chi lo conosceva, lui era così.

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