Two times João Liberada, di Paula Tomas Marques
Lontano da ogni necessità di modernità a tutti i costi, sembra provenire da un passato prossimo senza aspirare a diventare canovaccio formale di invenzioni narrative. In Concorso a Pesaro 2025

L’invenzione di un personaggio come Liberada, che sembra uscita da un biopic complesso e mistico di De Oliveira, è necessaria per mettere in scena, in una scena composita e scomposta nella sua doppia temporalità, il tema del corpo liberato dalla sua natura e dalla sua netta definizione di genere con l’intenzione di ricercare una possibile identità anche nella dissidenza che il corpo stesso, nel passato come nel presente, ha subito a causa della sua diversità.
È con queste intenzioni che il regista, in questo film – nella sezione del Concorso a Pesaro61 – in cui classicamente si decide di giocare sul terreno del metacinema, mette in moto il meccanismo narrativo della storia (inventata) di Liberada, suora nel cinquecento durante la Santa Inquisizione e oggi omonima attrice che vive più liberamente la sua transessualità, sebbene assediata dall’incubo di Liberada che le viene in sogno. Il regista del film però è colpito da una specie di paralisi e le riprese devono essere sospese.
È su una specie di doppio registro che l’impianto del film della portoghese Marques trova la sua stabilità. Se da una parte il suo racconto si articola su due epoche diverse, nel tentativo largamente riuscito di dimostrare la complessa e sfuggente materia della rappresentabilità dei corpi, in un lavoro di sovrapposizione non solo di tempi storici, ma anche di disposizioni narrative che sembrano impedire, ieri come oggi, di offrire piena identità a quella dissidenza di cui si diceva, dall’altra il film si avvale di una certa semplicità di messa in scena, quasi di una elementarità di ogni suo profilo narrativo. È questo resta forse il maggiore contributo di una ricerca originale e non banale che Two times João Liberada offre e ha offerto al pubblico del Festival di Pesaro.
Lontano da ogni necessità di modernità a tutti i costi, il film sembra provenire più da un passato prossimo che aspirare a diventare canovaccio formale di invenzioni narrative, il suo è un periodare quasi artigianale e perfino nel sogno finale di Liberada la sua doppia identità di fantasma parlante dal passato e attrice reale del presente resta risolta senza l’ausilio di mezzi speciali, ma svelando i meccanismi della messa in scena cinematografica. Tutto testimonia dunque le vere intenzioni del film e della sua regista, che sono quelle di operare attraverso la narrazione del come si fa un film, anche la narrazione di cosa sono e cosa sono stati i corpi dissidenti e non allineati e quanto sia possibile mettere in scena la loro liberazione. Per rendere ancora più radicali queste intenzioni organizza una troupe di transessuali ancora più identificabili con la diversità della suora cinquecentesca. Anche qui quindi un doppio registro: l’artigianalità della messa in scena e la complessità del pensiero che diventa scena da film. E si torna a De Oliveira e alla sua complessa semplicità.