Ubriaco di stile: il Caso (e) Paul Thomas Anderson

Il suo stile è eccessivo, onnipresente, ubriaco per la passione che si dà e si vuol catturare alla memoria cinematografica; con un sostanziale disinteresse nei riguardi del messaggio, un esasperato coinvolgimento emozionale, un uso disturbante della traccia sonora, una costante manifestazione di artificiosità che non ostacola l'immedesimazione.
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L'ultimogenita delle fondamentali creature viventi/dolenti di Paul Thomas Anderson è una pietra miliare che ammonisce: a) coerenza, parossismo e finezza possono camminare insieme; b) se la psicologia si è sviluppata nei selvaggi Usa con maggior facilità rispetto ad altri paesi culturalmente più avanzati (sorvoliamo sul belpaese per pietas e non per amor patrio) un motivo di riflessione, oltre che un superamento di consunte ironie alleniane, va cercato almeno sugli schermi; c) proprio la temeraria personalità di un regista così ir/regolare (aspettando ansiosamente il Kill Bill tarantiniano) testimonia la vivacità di una cinematografia sempre pronta a trovare gli anticorpi nei momenti di stanca, soprattutto negli ambiti indipendenti (e quindi…); d) anche l'ottimo ed iper-riverito/riferito/linkato Giona A. Nazzaro può sbagliare (l'errore, frutto di rigurgiti antiliberali, sta nel distruggere per meglio difendere ciò che si ama, dicotomicamente black or white, un po' come i personaggi di Anderson… Come si fa ad accusare Spielberg di aver fatto ultimamente solo buoni film e non opere epocali, addirittura boicottarlo senza preventivamente affrontare il nodo di leggi antitrust, distribuzione telematica, proiezioni satellitari, uscite simultanee sala-dvd-vhs, amplificazione degli offerenti per meglio confondere tutto, insomma…)?

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Perché un gioiello come Punch-Drunk love non ci può invadere dentro e fuori? Perché bisogna ad esempio affrontare il caos del quartiere Prati di Roma nel solipsistico circuito EdenQuattroFontaneblablabla per vederlo? Misteri di una distrazione nella distribuzione, misteri nei quali però non è impossibile incunearsi, come tra le pieghe del marketing dei punti millemiglia aerei, ma solo a patto di gettare a terra l'ascia delle divisioni strategiche normalizzanti. Buon senso, logica, prevedibilità diventano con Anderson non frammenti residuali di una cappa celeste che ci sovrasta ma nemici spesso familiari da affrontare a viso aperto perché contrastanti i nostri sogni e bisogni primari quali essi siano, l'amore, la considerazione, l'autonomia. Persino la pipì repressa del bambino prodigio di Magnolia rappresenta la volontà di inglobare in un sistema di automazione individuale le nostre vite im/materiche dove bisogna continuamente come in un quiz-tv dare le risposte giuste in un eterno gioco di attese e contrappesi (o contraccolpi). Naturale imbattersi in uno stile eccessivo, onnipresente, ubriaco per la passione che si dà e si vuol catturare alla memoria cinematografica. Uno stile orizzontale (anche le bibliche rane piovute dal cielo restano provvidenziali e rumorosi elementi urbani) come le strade di Los Angeles o San Francisco, come i collegamenti di situazioni umane governate dalla pallina impazzita della roulette del Caso quando non faticosamente costruite, come gli interni/set claustrofobici e visivamente imperfetti, resi fulgidi o esanimi da panoramiche a schiaffo su spazi vuoti o da accelerazioni di montaggio su una serie di dettagli. Sempre alla ricerca del piano-sequenza che nella manchevolezza esibita non perda la citazione. Più Altman (omaggiato ora anche con la performance canora dell'icona Shelley Duvall in He needs me) che Scorsese ma nonostante la contiguità di ambienti (sale da gioco, sottoboschi cinematografici, famiglie problematiche) e strutture parallele d'affresco (Short cuts/Magnolia) permangono differenze rilevanti: un sostanziale disinteresse nei riguardi del messaggio, un maggiore se non esasperato coinvolgimento emozionale che può perfino alimentare le minuzie psicologiche, un uso meno caotico ma più controllato e disturbante della traccia sonora (voce, musica o rumore che sia), una costante manifestazione di artificiosità che non sempre ostacola l'immedesimazione

La vera costante tematica del suo cinema è però il rapporto fatto di continue aspettative tra genitori e figli o tra fratelli e sorelle. Qui entra in gioco la chiave biografica in questione. Nasce il 1 gennaio del 1970 a Studio City in California e poi cresce assieme a due fratelli e quattro sorelle nella San Fernando Valley. Il padre era Ernie Anderson, uno dei più famosi doppiatori americani del '900 nonché attore  e personaggio televisivo di successo nei panni di Ghoulardi (cui va il nome della casa di produzione di Paul Thomas), bizzarro conduttore di un programma di cinema horror. Stando alle dichiarazioni dell'autore di Magnolia è alla figura paterna che dobbiamo guardare per cercare il senso dei suoi film che già appaiono fortemente un cortocircuito del suo curriculum vitae. Dal disagio per il successo di Ghoulardi all'utilizzo di uno dei primi VCR sul mercato per vedere a 10 anni film porno, dal rapporto conflittuale con la scuola alle prime esperienze professionali come assistente alla produzione in piccoli film indipendenti o in vari show e quiz televisivi. Nel '93 presenta al Sundance Film Festival di Redford un cortometraggio da lui scritto e diretto, Cigarettes & coffee, che ottiene il massimo riconoscimento nell'apposita sezione. E' il canovaccio di partenza del suo primo lungometraggio Hard eight (Sydney), che nel '97 lo porta a lavorare con attori del calibro di Samuel L. Jackson e Gwyneth Paltrow. Siamo in atmosfere da noir disilluso che sfiorano il pulp senza bisogno di humour in meccanismi in cui il Caso ancora non la fa padrone, anzi è dominato da un ex gangster che grazie all'abilità nei casinò riesce ad aiutare un'entraineuse e un giovane spiantato cui deve far da padre per ottenere una redenzione impossibile. E' dello stesso anno Boogie nights, complice e originale saga sul mondo del cinema pornografico americano tra il '77 e l'82, quando il video soppianta la pellicola e il sogno di "fare porno decenti" scompare. Liberamente ispirato alla vita di John Holmes, è ancora una storia di fughe familiari, cadute e salvezze dove la figura del produttore interpretato da Burt Reynolds è quella di un padre che sa riconoscere le (super)doti di un ragazzo altrimenti annichilito da un destino di vessazioni domestiche.

 

Magnolia nel '99, Orso d'oro a Berlino, magma di vite eterodirette da un fato ineluttabile che non comprendono e che non ha dato loro il tempo per capirsi o perdonarsi. Personaggi che da borderline si fanno orderline, universali, rispondendo finalmente ad esigenze proprie e non imposte da dettami consolidati. E il non-senso di un mondo così imprevedibile offre uno spiraglio di salvezza possibile proprio perché le colpe alla fine ricadono su tutti in egual modo. La coralità amara di questi ultimi due film lascia ora il posto alla tensione parossistica ed iper-reale di Punch-Drunk love. Riuscitissima sinfonia cacofonica di un corpo/macchina continuamente sottoposto ad un durissimo lavoro di compressione (la repressione dei propri sentimenti, la negazione di decisioni ed iniziative individuali sfogata nell'acquisto maniaco di pudding convertibili in buoni viaggio, la sottomissione a sette sorelle invasive ed opprimenti) ed espressione (la ribellione ai ricatti di una hot-line persecutoria, l'abbandono all'amore e alla sincerità verso un'Emily Watson anch'ella piovuta dal nulla). Il compromesso sarà tra l'abbandono della realtà quotidiana, così irreale tra luci e colori improponibili e squilli di telefono continui, e la fuga verso un'irrealtà hawaiana da cartolina bidimensionale, così reale e libera da lacci e lacciuoli. Anche qui la ricerca spasmodica del fastidio che sa trasformarsi in furia ha un sapore universale. Play it again, Paul. Papà lassù ti guarda.

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