Ugo Tognazzi, un magnifico uomo ridicolo

Sentieri selvaggi rende omaggio a Ugo Tognazzi ripubblicando un brano dal libro “Tognazzi l’alterugo del cinema italiano” a cura di Massimo Causo

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Tragedie di un uomo ridicolo: la maschera seria

Storie di un “altro” italiano

“Mi sono sentito così ridicolo”
Andrea Artusi/Ugo Tognazzi ne Il magnifico cornuto, 1964

Quelle rughe sulla fronte che sembrano dargli continuamente un’espressione corrucciata, quegli occhietti vispi e curiosi che paiono scrutare il mondo dal buco della serratura, quel naso alquanto pronunciato, forte e ingombrante fino a caratterizzarne il timbro di voce inconfondibile, con quell’accento assolutamente “padano”, né lombardo né emiliano, eppure tutt’e due assieme… ecco Ugo Tognazzi aveva un aspetto apparentemente del tutto “normale”, senza alcuna caratterizzazione forte, che lo potesse porre immediatamente all’attenzione, sia drammatica che comica. Non aveva il fisico imponente di un Gassman, né l‘aria dolcemente malinconica e affascinante di un Mastroianni, ma neppure il volto bamboccesco di un Sordi o la maschera comica di un Totò. Proprio questo suo aspetto, se vogliamo, anonimo, lo ha costretto per anni da un lato a una durissima e lunga gavetta per affermarsi, dall’altro a costruirsi pazientemente una grande capacità di mutazione, che gli ha permesso nel tempo di realizzare dei personaggi molto sfaccettati e mai eccessivamente preda dell’immagine del “divo” (come invece accadeva con i tre mattatori della commedia all’italiana precedentemente citati).

Non sono l’attore carismatico che ha fatto di tutto per esserlo. Sordi ha lavorato tutta la vita per essere quello che è oggi per il pubblico, l’”Albertone nazionale”. Io, invece, sono un “Ughetto internazionale”. Ho visto in tv l’ingresso di Sordi a Sanremo, e ho visto un Sordi che somigliava molto al Papa, mentre io continuo a somigliare solo a me stesso

Forse oggi sarebbe arrivato il momento, per la critica nostrana almeno, di rivedere – con sguardo nuovo e, forse, più moderno – la storia del cinema italiano, scacciandola fuori da quella “ufficiale” e troppo “d’autore” esistente. Perché il cinema italiano del dopoguerra (ma non solo) è anche e soprattutto un cinema “d’attore”, e se si fosse compresa meglio e prima questa fondamentale “presenza” di senso dell’attore sulle opere della commedia all’italiana, non ci si sarebbe poi più di tanto sorpresi per la trasformazione, avvenuta negli anni Ottanta con l’ondata dei cosiddetti “Nuovi comici” (Troisi, Benigni, Nichetti, Verdone, Nuti, ecc….), dei divi della commedia in attori-registi, completamente padroni del controllo dei loro film.
Eppure anticipazioni di queste riflessioni ce ne sono state, anche se non così consapevoli, una fra tutte quella “Storia di un italiano” televisivo, in cui un Giancarlo Governi ancora “sperimentale”, cercava di tracciare una lettura originale della storia del nostro paese attraverso i tanti personaggi interpretati da Alberto Sordi. Anche se poi criticamente non è più stata seguita, almeno dalla critica ”ufficiale”, quella impostazione ha avuto però un’influenza non certo irrilevante sull’idea di Italia, di Italiano e di Storia d’Italia proposta. Sordi, con il suo magnifico personaggio al contempo umile e meschino eppure ingenuo e arraffone, riusciva a raccontare di un’Italia che cercava di arrangiarsi, di adattarsi alle trasformazioni politico-sociali epocali che la stavano attraversando. E il metodo “gattopardesco” del trasformismo era quello vincente, quello dominante in un paese in cui la Democrazia Cristiana aveva il controllo completo delle istituzioni (tranne forse quelle culturali dove la presenza della sinistra era già fortissima). Per anni questa visione dell’italiano raccontata del personaggio di Sordi è stata dominante nell’immaginario collettivo del nostro paese, affiancata da quella, parallela, del personaggio sbruffone e marcatamente sopra le righe (e perciò forzatamente “teatrale”) interpretato da Vittorio Gassman, che dopo una lunga carriera di personaggi drammatici, sulla soglia dei quarant’anni era stato scaraventato nella commedia all’italiana da I soliti ignoti, che lo consacrò da allora come una delle icone del cinema e della cultura italiana.
Eppure, se solo si fosse stati un po’ più attenti….

Se la critica e la cultura italiana fossero stati meno vittime dell’immagine dell’italiano che si è voluta dare al mondo (ossia ingenuo eppure furbo e capace di adattarsi alle situazioni cosi amabilmente descritta da Billy Wilder in Che cosa è successo tra tuo padre e mia madre?) ci si sarebbe accorti che contemporaneamente ai due mattatori della commedia e del cinema italiano, c’era un altro grandissimo personaggio, meno visibile ma perché più silenzioso, più sornione, non urlatore, che però raccontava la storia di un “altro italiano”. Ed era proprio Ugo Tognazzi. E se oggi ci andiamo a rivedere squarci della sua lunghissima (circa centocinquanta film!!!!) filmografia, scopriamo un personaggio sicuramente più moderno e più storicamente accettabile.
Se fosse stato scelto Tognazzi, invece che Sordi, a rappresentare l’italiano medio, chissà forse oggi saremmo un paese migliore…..

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I film “seri” degli anni sessanta.

Ugo Tognazzi compie, in un certo senso, un percorso parallelo e contrario a quello di Vittorio Gassman. Mentre quest’ultimo arriva al grande successo passando da parti drammatiche a parti di commediante, Tognazzi anch’egli intorno ai quarant’anni, si ritrova dopo una lunga carriera di attore comico (con Walter Chiari, il sodalizio anche televisivo con Vianello, persino con Totò) ad affrontare invece dei personaggi diversi, in quella direzione divertente eppure amara che la commedia all’italiana prende in quegli anni. E quando nel 1961 Tognazzi interpreta Il federale, non solo ha già 39 anni, ma ha ben 43 film interpretati alle sue spalle. L’incontro fortunato è con Luciano Salce, grande cineasta assolutamente “non valutato” dalla critica (e che invece andrebbe ristudiato insieme al duo Castellano & Pipolo, perché rappresentano forse un’alternativa antiideologica al cinema “di sinistra” rappresentato da Age, Scarpelli, Scola, Monicelli ecc…- tra l’altro a Salce si deve anche il lancio di Paolo Villaggio e del personaggio di Fantozzi, altro “italiano” indimenticabile), che in un cinema italiano che stava riscoprendo (grazie a Rossellini di Era notte a Roma, ma poi anche Tutti a casa) le storie della guerra, mette Tognazzi nei panni integerrimi di Primo Arcovazzi, militante graduato e convinto della milizia fascista con la grande ambizione di diventare “federale”, nell’Italia dell’8 settembre, dove schierarsi era difficile e obbligatorio. Salce realizza qui un film modernissimo, di continui scambi, di ruoli, di divise, di posizioni, di direzioni, persino convinzioni. Il federale è un gioco continuo – eppure serissimo – di travestimenti, con cambi di mezzi di locomozione (la moto, l’automobile, il treno, persino il tandem, e poi a piedi….) che lo fanno diventare sia un curioso “buddy movie” che un ”road movie“ . In un paese colpito dalla durezza di una guerra che ormai l’attanaglia, Il federale sa raccontare storie con uno spirito caustico già “fantozziano” (e Tognazzi anticipa Villaggio di almeno 15 anni) insieme a un’aria da sberleffo che ritroveremo solo tanti anni dopo in Amici miei. Ma su tutti emerge la figura del personaggio di Primo, cui Tognazzi riesce a disegnare una forza unica, che lo fa essere coerente – controcorrente, da solo e a rischio della vita – fino in fondo, in un momento in cui cambiare direzione era assai più comodo e in un mondo di continui tradimenti, imbrogli e passaggi di campo.
Ecco che Tognazzi tratteggia in questo suo primo grande successo (il film fu campione d’incassi nel 61/62) un personaggio già “ridicolo”, secondo una chiave che attraverserà tutto il suo cinema successivo, quello dell’uomo ostinato e, forse, un po‘ “fuori dal tempo” (eppure magnificamente dentro).
L’anno dopo, sempre con Salce, Tognazzi si immerge in una nuova “tragedia ridicola”, interpretando il maturo quarantenne de La voglia Matta. In pieno boom economico l’ingegnere milanese che si prende una cotta per la giovanissima Catherine Spaak, sbatte al tappeto ogni rigore morale, anche perché per sopravvivere in un paese che sta lanciandosi internazionalmente come una delle forze nuove dell’economia è necessaria una grande spavalderia, intraprendenza ma anche una rinnovata capacità di arrangiarsi. Ma qui, al confronto con i giovani annoiati borghesi cosi cinicamente descritti da Salce, si rischia il patetico e Tognazzi è davvero esemplare nel doppio gioco tra la realtà dei ragazzi e quella dell’immaginario del protagonista rappresentata in continui flash, che costituiscono una sorta di contrappunto morale della storia.
Sono questi con Salce due film contemporanei di due pellicole stranamente speculari e di grande successo anch’esse: Tutti a casa (con Sordi) e Il sorpasso (con Gassman). La moralità del Federale, personaggio perdente di un Italia ormai in cambiamento e che non accetta la sconfitta, è diversa da quella del combattuto personaggio del Sordi di Tutti a casa, cosi come il personaggio de La voglia matta sembra raccontare le differenze generazionali e il trapasso epocale in maniera meno macchiettistica e manichea dei protagonisti de Il sorpasso.
Dopo di allora Tognazzi, che al contrario degli altri aveva comunque continuato in parallelo la sua attività di attore comico, prende decisamente la svolta delle commedie amare, soprattutto dopo l’incontro con Ferreri che avviene nel 1963, tema che però esula da questo intervento.

E Tognazzi diventa un emblema di un Italia che nessun altro riesce a raccontare, lui unico “nordico” in un cinema italiano clamorosamente centro meridionale nelle sue più diffuse e vincenti rappresentazioni (Sordi, Totò, Gassman, Manfredi, Mastroianni, sono tutti provenienti da regioni del centro sud). La galleria di personaggi dell’era del boom si chiude, emblematicamente, con l’industriale bresciano de Il magnifico cornuto di Antonio Pietrangeli, dove finalmente il cinema italiano esce fuori dal tema “sociale” comunque dominante (la mancanza di soldi e l’arte di arrangiarsi, filo rosso di tutto il cinema del dopoguerra, ad esclusione del Rossellini di Viaggio in Italia ed Europa ‘51 e dei film di Antonioni, che però non facevano parte della commedia all’italiana) per lanciarsi nelle ossessioni tutte borghesi (e perciò all’epoca estremamente moderne per l’Italia) della malattia “lusso dei ricchi”, ossia la gelosia. Il personaggio di Tognazzi, cosi moderno nel suo scegliere uno stile di vita alto, con una villa in costruzione che sembra proprio narrare il bisogno di “rappresentarsi” moderni, manifesta altresì delle antichità rurali di ritorno (le “corna”), che lo portano a una sorta di vera e propria follia, con T. bravissimo nel giocare tra le righe di un personaggio sfaccettato e sensibile, teneramente ridicolo nella sua “magnifica ossessione”.
Questo suo essere perfettamente a suo agio in ruoli di persone un po’ fuori dal mondo, o almeno cosi pedissequamente zelanti ed oneste da risultare inadattabili al contesto sociale, pur non essendo certo degli emarginati, insomma questo suo essere “l’atro italiano”, quello che non accetta il malcostume dilagante, senza porsi su un altro livello ma cercando di mantenere una dignità personale fortissima, riemerge in un film del 1969, Il commissario Pepe, di Ettore Scola. Qui T. è il commissario di una piccola città di provincia, dove tutti si conoscono, tutti hanno i loro segreti (che poi tutti conoscono sotterraneamente) e dove egli cerca di essere comunque tollerante, di soprassedere a queste piccole illegalità provinciali che in definitiva sono accettate da tutti come statuti sotterranei della convivenza civile. Separato ha un’amante (semi) segreta, e vive anch’egli in questo mondo di ipocrisie in fondo “sincere”. Insomma cerca di soprassedere al marciume ma quando gli viene imposto di scoprire cosa si nasconde dietro l’omicidio di una ragazza si ritrova a dover scoperchiare questo sottomondo, e a mettere in luce le nefandezze di troppi notabili della città. Qui nell’indecisione di lottare da solo contro tutti o accettare il trasformismo tipico italiano, decide per la strada della fuga, con le dimissioni e il trasferimento in un’altra città. E’ un soggetto non particolarmente originale, pieno tra l’altro di elementi bozzettistici che all’epoca forse gli davano una carica “sociale” e politica ma che oggi appaiono insopportabili, dove però T. riesce a trasformare il suo ennesimo “uomo ridicolo” in un personaggio ”senza qualità”, al di là del tempo. Due anni dopo, sarà Risi a ripresentarlo nei panni questa volta di un integerrimo magistrato che indaga sull’assassinio di una giovane ragazza, ne In nome del popolo italiano. Qui abbiamo l’incontro scontro con Gassman, fuori dalle caricaturali presenze ne I mostri. Gassman è tutto sopra le righe, esageratamente riproposto nelle vesti del cialtrone declamante e ipocrita, mentre T. è il campione dell’understantment assoluto, ancora un a volta “fuori dal mondo” eppure immersone dentro fino al midollo. Qui il suo essere “ridicolo”, magnificamente presente nel corpo attoriale di T. in questo personaggio tutto d’un pezzo, che ha in odio il suo interlocutore industrialotto da loschi affari democristiani sin dal primo incontro, viene però spinto “ideologicamente” in una direzione pericolosissima, e fuori dalle coordinate proprie di T. E’ imbarazzante vedere Tognazzi, in un Italia impazzita per la vittoria della nazionale di calcio, distruggere le prove che scagionerebbero l’industriale Gassman dalle accuse di omicidio. Ma in questa caratterizzazione ideologica “forcaiola” della sinistra di allora (di allora?), che spinge un personaggio a fare incriminare un altro, pur pessimo, per un delitto non commesso (e neppure Al Capone venne incriminato per un delitto non commesso…. davvero amorale!), quello che emerge, al di là del film “a tema” di moda in quegli anni, è l’espressione perennemente corrucciata, mai un sorriso o un inflessione, davvero qui Tognazzi sembra “l’autore di se stesso”…

Gli anni Settanta

E’ il passaggio a un’altra fase della carriera di Tognazzi, quella del personaggio ormai anziano e maturo che si scontra con le difficoltà di accettare questa sua nuova condizione di vita. Tutti gli anni Settanta ci ripresentano continuamente un Tognazzi alle prese con scontri generazionali con l’altro sesso espliciti e ripetuti, seppure in film diversissimi tra loro: in quell’apologo parabrechtiano che era La proprietà non è più un furto, dove è un ricco macellaio romano che si scontra con i giovani Flavio Bucci (l’impiegato di banca che lo perseguita) e l’amante (Daria Nicolodi); nel personaggio dell’industriale che s’innamora della giovane vedova di un suo operaio fino a concedere aperture sociali in fabbrica ne La califfa di Lattuada; o il “triplo film” con Ornella Muti rappresentato da Romanzo popolare (dove è la moglie giovanissima), La stanza del vescovo (dove è la giovane cognata vedova) e Primo Amore (dove è la cameriera del residence con cui fugge il vecchio pensionante). Sono tutti film in cui gli elementi del “Tognazzi pensiero” sembrano evidenziarsi, in uno scontro frontale tra l’esigenza del piacere, del godimento come regola elementare di vita, e la trasformazione sociale di questo bisogno in elemento “ridicolo”, vera costante del suo cinema. Di questi il grande successo è rappresentato da Romanzo popolare, dove un T. cinquantenne caratterizza magnificamente il personaggio dell’operaio con la moglie bambina, uomo moderno ma pur sempre dentro le mentalità arcaiche del suo ambiente (ancora “Il magnifico cornuto”). Storia e personaggi sarebbero datatissimi se oltre alla bravura di T. non ci si fossero messi anche le genialità di due personaggi come Enzo Iannacci e Beppe Viola che ufficialmente appaiono come “scrittori dei dialoghi in dialetto” ma che evidentemente segnano il film con una poetica (la canzone di Iannacci, le storie operaie milanesi di Viola) che non sembra appartenere al regista “ufficiale “ Monicelli.

Lo scheletro di tutte le società passate, presenti e future si riduce a questa formula: godere e far godere
Ugo Tognazzi in Venga a prendere il caffè ….da noi, 1970

Ugo Tognazzi, allora, in questo suo versante “serio” di una carriera complessa e articolata, lo possiamo raccontare come un “auttore”, autore/attore di un cinema di cui non è solo icona ma che lega indissolubilmente attore/personaggio e storia. Come ogni autore che si rispetti i film “di” Tognazzi hanno tutti le sue ossessioni, sono legati da fili tematici, persino visivi, che permeano di sé tutte le storie. Se pensiamo a temi forti e ricorrenti come il piacere e il godimento, intesi nei due versanti del piacere del cibo e della sessualità, scopriamo un percorso che attraversa la sua filmografia da capo a fondo (quante volte vediamo Tognazzi in cucina nei suoi film? quante volta la passione sessuale lo divora?). In tutto questo, sempre il suo personaggio (e incredibilmente tante volte esplicitato nella stessa sceneggiatura con la perfetta definizione!) è palesemente “ridicolo” cioè meravigliosamente fuori dalle mode e dalle tendenze della Storia, e dunque fuori schema, contromano.
Quando perciò per una strana combinazione della vita, Bernardo Bertolucci scrive l’unico film completamente da solo, La tragedia di un uomo ridicolo, Ugo Tognazzi trova il film che gli calza a pennello, non solo come titolo, ma come personaggio, come storia, come specchio deformato di un’Italia che non si vuole vedere per quello che realmente è: confusa, capricciosa, incapace di capire la realtà, eppure ancora sognante e, in fondo, ancora piena di sensi buoni… La tragedia di un uomo ridicolo permette a Tognazzi di raccontare in un’unica storia tutte le storie già interpretate, immergendole però dentro il caos dell’Italia del passaggio di decennio settanta/ottanta, un paese dilaniato dal terrorismo ma anche dal cosiddetto “consociativismo” destra/sinistra che avevano aiutato e favorito questo movimento politico in origine marginale. Bertolucci prende il corpo attoriale di Tognazzi e lo scaraventa nelle sue terre (va bene, siamo nel parmigiano e non nel cremonese, ma la distanza è breve), riprende uno dei tanti personaggi industriali imprenditori ricchi de lui interpretati e lo immerge dentro una storia fosca e ambigua di rapimenti e riscatti. Qualcuno, sotto i suoi occhi da lontano, gli rapisce il figlio (tra l’altro interpretato da Ricky Tognazzi, se qualcuno non avesse capito il senso “realista” del film sul corpo del personaggio Tognazzi), e si ritrova coinvolto in un gioco di cui non capisce né il senso né le regole, e di cui però testardamente cerca di prendere in mano le redini, inutilmente. Tra poliziotti che lo sorvegliano, giovani dipendenti che diventano improvvisamente la “sua famiglia” , strani collegamenti – mai diretti, sempre solo accennanti, con le lotte giovanili, con il terrorismo dilagante, con un senso di erotismo (il rapporto con la giovane Laura Morante, ancora il sesso e il godimento con la giovinezza) e di morte che aleggia per tutto il film (la morte del figlio, vera, falsa, la morte dei valori, la morte della verità, ecc…), Tognazzi ci regala il suo film epitaffio, il suo capolavoro di leggerezza, padronanza, semplicità, sensualità e piacere, che inevitabilmente dovevano legarlo al cinema godereccio e sensuale di Bertolucci. Il risultato fu la tardiva consacrazione internazionale con il premio a Cannes per la migliore interpretazione. Curiosamente però da questo film magnifico e da questa interpretazione che lascia ancora oggi a bocca aperta, il cinema italiano non saprà coglierne alcun frutto. Nell’ultimo decennio della sua vita Tognazzi sarà utilizzato pochissimo dal nostro cinema, assai meglio dal cinema francese e si rifugerà in un ritorno al teatro mai abbandonato.
Se solo il cinema italiano avesse colto la grandezza di Ugo Tognazzi, quest’uomo cosi magnificamente ridicolo eppure bello, gioiosamente buono, incapace di essere antipatico e vincente secondo lo statuto tutto italiano del successo, oggi forse si sarebbe raccontata un’altra storia, del cinema, del nostro paese. Ma forse è meglio così, e ci teniamo tutto per noi il piacere che questo grande uomo di cinema ci ha regalato.

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