Ultimo Impero, di Danilo Monte

Presentato all’ultimo Bellaria Film Festival, il nuovo film di Monte si muove tra le macerie, per racconta lo scarto tra un luogo sognato e la realtà effettiva delle cose

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Noi siamo energia cosmica

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o energia solare,

siam figli della musica,

siam nati per ballare.

Non aveva dubbi il vocalist Mad-Bob: il suo mantra discospaziale era l’inno di una generazione che celebrava il sogno di un’estasi radiosa. Erano i pieni anni ’90, e quell’invocazione si innalzava tra le piste da ballo dell’Ultimo Impero, per qualche tempo la più grande discoteca d’Europa, a pochi chilometri da Torino. Inaugurata nel 1994, era una struttura gigantesca: quattro piani, 7 piste, una capienza di 8000 persone, la musica che rombava come un tuono, nella potenza di fuoco dei watt degli impianti. Il tempio di un’epoca che immaginava la sua gloria techno. Una gloria effimera. Perché la storia racconta che l’Ultimo Impero ha avuto una vita travagliata, tra retate di polizia, sequestri, cambi di gestione e di nome, fino alla chiusura definitiva nel 2010. Eppure, per quelle sale, sono passati dj destinati a diventare celebri e migliaia e migliaia di ragazzi in cerca della notte. Ora non rimangono che resti fatiscenti, sventrati. Sembrano appartenere a un passato lontano anni luce, ma in realtà testimoniano una vertiginosa velocità di consunzione delle cose e delle esperienze. Insieme all’Incompiuto, quei luoghi abbandonati sono lo scenario probabile del genere architettonico più esattamente contemporaneo…

Comunque, è intorno a quelle macerie che Danilo Monte fa muovere i personaggi della sua storia: un immigrato clandestino musulmano, una prostituta non più giovane… un’umanità marginale e residuale che sembra quasi doversi dissolvere nella bruma e nel grigiore della campagna tutt’intorno. Per Ultimo Impero, ritrova come protagonista Mohamed Amine Bour, il giovane poeta marocchino che già attraversava le inquadrature del cortometraggio 2061. E, in effetti, i due film sembrano avere molto in comune. Non solo perché rappresentano una deviazione rispetto al cinema intimo di Danilo Monte, che nelle forme del documentario ha sempre trovato la modalità d’espressione più efficace di uno sguardo in soggettiva. Ma soprattutto perché entrambi raccontano lo scarto tra una città immaginata, una sorta di Xanadu di sogno, e la realtà effettiva delle cose. In 2061 c’erano le immagini d’archivio del quartiere Italia ’61 di Torino, cuore dell’Expo internazionale del 1961. Un quartiere che rispondeva a un’idea futurista di città, disattesa dalle immagini del presente. Qui, in Ultimo Impero, d’archivio non c’è nulla, se non dei brevi istanti sgranati di una notte sfrenata, che sembrano quasi venir fuori dai deliri del protagonista picchiato a sangue. Per il resto Monte si muove tra i silenzi e i vuoti e lo fa con rigore: allontanandosi nel pudore di un campo lungo, nascondendosi negli angoli bui e nei punti morti di un racconto di desolazione. “Qui non è rimasto più niente… qui è tutto… è tutto amaro”. Ma alla fine è sempre questione di aspettative non compiute, rimandate e inappagate, di tempo che sfalda le cose. Che sia, in fondo, questa l’indicazione della traccia più profonda del cinema di Danilo Monte, anche dei suoi film-diario in prima persona? Il dover sempre misurare la distanza tra i desideri, le intenzioni e le complicazioni infinite della vita. Anche se alla fine, c’è sempre spazio per un’epifania, una nascita, una connessione imprevista, un passaggio da mano a mano. Come quel ciondolo su cui si chiude e si apre il film.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.2
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Il voto dei lettori
3.67 (6 voti)
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