Ultraviolette and the Blood Spitters Gang, di Robin Hunzinger

Attraverso la lettura di alcune lettere ritrovate dopo la morte della nonna, il regista costruisce una storia d’amore piena di pathos. In programma domani al Rome International Documentary Festival

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Dopo la morte di sua nonna Emma, Robin Hunzinger e sua madre Claudie trovarono delle lettere e scoprirono un grande amore. Da adolescente Emma era stata in una scuola di Digione. Aveva conosciuto Marcelle, si erano innamorate ed amate. Poi la vita le aveva divise, Emma impegnata a proseguire gli studi, Marcelle pronta ad iniziare il lavoro di insegnante, prima di scoprire la tubercolosi ed essere ricoverata in una sanatorio. Siamo negli anni venti del Novecento, la malattia ha l’impatto di una guerra, vinta solo qualche anno più tardi con l’introduzione dei vaccini. Per la metà degli ammalati il sanatorio era l’anticamera della morte. Marcelle in quel posto è diventata Ultraviolette, capo della banda delle sputasangue, e da lì ha iniziato a scrivere quelle lettere, epistolario minore ed infetto di una donna ancora giovanissima già segnata dalla fatalità.

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Sentiamo delle voci, sullo schermo si imprimono vecchie fotografie alternate ad immagini di archivio, e l’insieme racconta una storia grazie all’antitesi del bianco e nero. Un racconto erotico, evanescente, profondo, leggero e lucido. L’amore e la morte, così vicini da potersi toccare. Thomas Bernhard è lo scrittore che meglio di tutti ha descritto l’esperienza del sanatorio nella sua biografia intitolata Il freddo. Con quale diritto proprio io avrei dovuto cavarmela? si chiede. Parole di disperazione. Nervi contratti fino allo spasimo. Anche Marcelle sente qualcosa scivolare via, con i sensi ancora eccitati dal ricordo della passione, e quel fuoco continua a consumarla di nostalgia. La passione la tiene in vita, e poco a poco cambia l’oggetto del suo desiderio. Ora, toccare il limite vuol dire anche superarlo, inevitabilmente. E lo supero solo toccando un altro – un’altra persona, un altro ente, un altro vivente, o anche la dura pietra, la cui resistenza opaca mi trascina più lontano, fuori di me come insegna Jean-Luc Nancy nel testo L’adorazione. Le attenzioni cominciano ad essere rivolte verso le compagne di sventura dell’ospedale, altre ragazze come lei costrette in un letto, con la stessa paura e la stessa urgenza di amare fino a bruciarsi. Se non bruciamo, come si illuminerà la notte?

Il film di Robin Hunzinger cattura la grazia nel dolore, riesce a bilanciare il destino nel gesto spontaneo e immacolato dello sguardo, catturando attraverso il passare del tempo un cambio di registro. Offre la guancia al lato giocoso e sensuale, trova la consapevolezza erotica del presente nel momento in cui scompare insieme ai corpi stremati, abbracciati nel nulla di un pomeriggio in riva al lago, luminoso e sorridente. Le donne sullo schermo sono l’anonima emanazione fisica del futuro, rappresentano i sogni e le aspettative. La realtà d’altro canto è solo il sogno di qualcun altro, un’evocazione psichica, una mappa illusoria costruita ad arte, dove perdersi per evitare la follia. Connessione intima di un vuoto che inizia a fiorire su un nuovo silenzio della materia.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
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