Un altro mondo. Sentieri Selvaggi intervista Stéphane Brizé

A Roma per i Rendez-vous, in questa intervista esclusiva il regista francese ci parla del suo ultimo film, in questi giorni nelle sale, e del cinema che racconta il mondo del lavoro disfunzionale

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Abbiamo incontrato Stéphane Brizé, a Roma per i Rendez-vous – Festival del Nuovo Cinema Francese, in occasione dell’uscita nelle sale di Un altro mondo, in concorso all’ultimo Festival di Venezia.

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Il tentativo di quantificare, dare una cifra a elementi intangibili come il tempo, la fatica, l’amore, è un tema del film evidente già dalla prima sequenza dagli avvocati divorzisti. Quanto è importante opporsi a questa idea per cui ogni questione della vita può essere ridotta ad un numero, ad una prova, ad un codice?

Le parole che hai usato sono tutte pertinenti ma molto complicate in rapporto alla mia maniera di apprendere le cose. Quello che faccio e la maniera in cui lo faccio possono far emergere questi concetti, di sicuro, ma in effetti non rientra nel mio registro di apprendimento, di comprensione, di produzione. E molto spesso tutto quello d’intelligente che ho da dire viene prima della produzione del film, come sceneggiatore, ma non attraverso questi concetti. È qualcosa di molto più organico. Effettivamente il mio lavoro è molto veloce, dal momento della scrittura, cerca di trasformare delle questioni intellettuali in storie organiche. Io costruisco tutto attorno a uno stato, infatti la prima cosa che percepisco è uno stato fisico, nel film ho integrato lo stato fisico dei personaggi che corrisponde a qualcosa della mia storia personale. Ma io sono un filtro. Tutte queste parole sono sì pertinenti ma è come se si perdesse qualcosa di essenziale del mio lavoro. Il nostro lavoro, il lavoro degli scrittori e ancora di più dei registi, è mettere in scena come il mondo e il suo funzionamento ci trasforma e come impatta su di noi. La scrittura di un film è un’esperienza molto fisica, molto organica. Non è un processo intellettuale. Quello viene dopo. Ma all’inizio è uno sforzo fisico, anche pesante. È un qualcosa, un sentimento, una sensazione del mondo che immediatamente traduco fisicamente e successivamente costruisco in uno stato fisico. Quindi evidentemente ci sono attorno delle considerazioni intellettuali, di psicanalisi… Ma tutto passa per l’esperienza organica. Non sono un intellettuale, non sono stupido, spero, ma non sono un intellettuale. Ho l’impressione che tutte le cose complesse del mondo che vediamo, tutte le questioni che strutturano la società, che strutturano il mondo, che strutturano la vita, che sono infinitamente complesse, trovino un’espressione molto concreta, ad esempio il lavoro, le transizioni, quanto siamo pagati o il fatto che esista un numero di previdenza sociale.

Oggi c’è una smaterializzazione assoluta della lotta di classe in cui il “nemico” abita gli schermi, le distanze delle riunioni su zoom, delle truffe in chat in cui il figlio del protagonista finisce invischiato credendo di parlare con Zuckerberg. Il potere è diventato un algoritmo, ancora più sfuggente da combattere…

Il film in realtà parla di una relazione molto concreta. Sì c’è un momento, quello della riunione con l’americano su grande schermo, ma è un tipo di riunione che esiste da molto tempo. Le riunioni su Zoom che abbiamo conosciuto col Covid sono nuove per noi, certo, ma è una cosa che esisteva già nelle aziende. E le aziende mondiali sono arrivate al punto di organizzare riunioni molto sofisticate e molto care, prima di Zoom, per provare a comunicare attraverso il pianeta. Il film è molto più concreto. Si parla di economia, di dati. Sì, possiamo collegare gli algoritmi e la matematica col mercato azionario, una corsa al profitto in borsa, con una disincarnazione assoluta, ma ad un certo punto tutto questo deve essere incarnato da qualcuno, c’è la spinta degli individui. Quello che mi interessa è mostrare l’incarnazione di questa violenza. Ma in questo film c’è qualcosa che va al di là della violenza, c’è una forma di violenza che è la perdita di senso. Infatti le decisioni sono prese, capiamo chiaramente che sono decisioni al servizio del profitto degli azionisti, e sono soluzioni che non hanno senso né per il buon funzionamento dell’azienda, che non hanno senso per la salute dei salari, né hanno senso per la salute di colui che porta l’ordine. È un mondo di pazzi, è evidente poi che le persone crollino e che i figli di queste persone crollino. L’episodio in cui il ragazzo parla con Zuckerberg fa parte della realtà, i giovani lo vivono ogni giorno, è uno scompenso fisico, un burn out. Potrebbero parlare ugualmente con un extraterrestre, anche perché Zuckerberg in qualche modo è una sorta di extraterrestre. Il film non parla di algoritmi, ma è vero che all’inizio c’è una decisione molto matematica incarnata per un momento dall’americano, che prende questa decisione che è una decisione legale, non è qualcosa fuori dalla legge. È questa la cosa folle. Il fatto che tutta questa violenza sia legale. Abbiamo organizzato il mondo, abbiamo fatto delle regole del gioco, delle leggi di mercato che fanno sì che tutto questo possa essere fatto tranquillamente. Ma tutto ciò è malato. È questa la realtà di questo mondo. Di conseguenza questa violenza genera delle malattie fisiche e psichiche, delle morti. Ci sono delle persone di mezzo. È una vertigine.

Il tema del lavoro, che è una tradizione di certo cinema francese fino anche ai nostri giorni (pensiamo ad esempio a À plein temps), è tornato di questi tempi alla ribalta anche per via di un entusiasmo nei confronti del progresso dell’automazione che potrebbe liberare definitivamente l’uomo dal lavoro meccanizzato. Cosa ne pensi?

Voi parlate di una certa tradizione del cinema francese e poi citate un film recente. Significa che a parte À plein temps, il mio film e qualche altro film di oggi non c’è una vera tradizione attorno a questo tema. Ci può essere stata un tempo, ma c’è tutto un periodo a partire dalla Nouvelle Vague che non ha nulla a che vedere con questo. La prova è che quando ho fatto La legge di mercato nel 2015, mi sono ritrovato ad essere invitato ovunque in Francia per essere il regista che raccontava il mondo del lavoro. E ho fatto riunioni dove c’erano dei lavoratori, dei sindacati… Il semplice fatto di essere invitato là, unico regista francese per parlare di questo, indicava che non c’era nessun altro. Quindi non c’è alcuna tradizione recente. Ci può essere stata nel passato ma si parla di tanto tempo fa. Sì, oggi possiamo ritrovare delle persone interessate a questi temi, può essere perché al cinema io porto questo mondo qua, questo sentimento di sofferenza per qualcosa, e può essere che lo facciano anche altri registi, anche perché è diventato un campo di ricerca, di investigazione molto appassionante, è diventata è una zona di guerra. E le zone di guerra sono molto interessanti da osservare quando si scrivono delle storie, per comprendere meglio l’individuo in delle situazioni molto tese. E ovviamente il mondo del lavoro è teso. Se c’è una tradizione, e intendo nel cinema globale, è quella di rappresentare la scala sociale, quelli che soffrono, che sono i più colpiti dalle decisioni brutali. Io ho voluto guardare un po’ più in alto nella scala sociale, per raccontare che abbiamo oltrepassato il limite, non possiamo riassumere il problema dell’opposizione di classe. Non è più solo una questione dei più poveri contro i più ricchi, è più di questo. È un sistema disfunzionale e in questo sistema vivono i capi, i manager e gli operai, i lavoratori. E quando si riassume la situazione nell’opposizione di classe chi si approfitta del sistema sono gli azionisti, i più ricchi. È importante oggi uscire da questa posizione troppo semplicistica e di rendere conto nel modo più preciso possibile il problema che si indirizza anche a quelli che sono il braccio armato del sistema. È un problema sistemico, non è più solo un problema dell’individuo e di classe sociale ed è molto importante rendersene conto. Ma è molto complicato perché è relativamente semplice mettere in scena quelli che soffrono e quelli che fanno unicamente soffrire, è molto più complicato mettere in scena quelli che soffrono e che fanno soffrire. Non si tratta di giustificare, ma di comprendere il meccanismo, le motivazioni. Per me è assolutamente fondamentale uscire da una dialettica troppo semplice ma anche perché avevo paura di essere nel posto giusto della “buona coscienza di sinistra”. Ovviamente se mostro qualcuno che soffre, un operaio, tutti quanti sono d’accordo. Con questo film ho detto qualcosa di condivisibile, non si può dire il contrario. Ma sentivo la responsabilità di andare verso qualcosa di più rischioso, di raccontare qualcos’altro del nostro mondo, ma assolutamente essenziale perché permette di portare l’attenzione sulla problematica che è una problematica strutturale, non è individuale. È incarnata dagli individui, ma è il sistema ad essere profondamente disfunzionale, ed è questo sistema che andrebbe modificato.

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