Un couple, di Frederick Wiseman

Altro che monologo. La prima incursione fiction del novantaduenne documentarista è una meravigliosa opera corale di parole, suoni, colori. Concorso

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Ma davvero fino ad oggi Frederick Wiseman ha girato soltanto documentari? Davvero quest’opera in Concorso rappresenterebbe la sua prima esperienza fiction dopo circa 60 anni di memorabili sguardi sul mondo? Se fosse così bisognerebbe discutere semplicemente di un monologo, un soliloquio nella natura. Ma non è così… Un couple, proprio come tutti i documentari passati, è ancora una volta una fantastica opera corale, stavolta immersa nel giardino La Boulaye, sull’isola di Belle Île. La scogliera, la spiaggia, il giardino in primavera, gli insetti, i fiori, gli alberi respirano con e attraverso la protagonista. Lei, Sofia, moglie di Leo Tolstoj, recita il suo diario, i suoi pensieri rivolti al marito. Sposati per trentasei anni, tredici figli, ma soltanto nove sopravvissero, pur abitando nella stessa casa si scrivevano spesso per cercare un dialogo e Tolstoj non perdeva l’occasione di intrattenere gli ospiti con la lettura dei rispettivi diari. Coppia problematica con una relazione fatta di continui litigi, insoddisfazione reciproca ma con improvvisi ed intensi slanci di riconciliazione. Sofia ci trasporta in un rapporto tormentato, costellato da gioie e dolori, senza mai perdere il contatto con la semplicità dell’invisibile e la complessità del visibile.

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Sofia inizialmente è seduta allo scrittoio con un foglio bianco e delle candele a fare luce. Conclude seduta allo stesso scrittoio ma c’è una lampada al posto delle candele. Spegnersi e accendersi come delle lampade o delle candele nell’intervallo in cui siamo accesi, cioè in vita, proviamo qualche sofferenza, ma prima e dopo vi è una pace profonda. Resta lo sguardo di Sofia che a volte guarda in macchina, il più delle volte però segue traiettorie inimmaginabili a cercare quelle stesse parole mai riportate definitivamente su carta, perché la parola è immagine o l’immagine può farsi parola, portata e guidata dal vento della Bretagna, attraversando lo spazio scenico con passo deciso. Girato nel periodo della pandemia in meno di un mese con una troupe essenziale, Wiseman ritorna per certi versi su due suoi lavori precedenti in particolare: Il diario di Seraphita, documentario del 1982, e L’ultima lettera del 2002. Di Jean-Marie Straub sembra ritrovare per certi versi la messa in atto della prova più ardita: coniugare la densità e il valore del testo con la misura necessaria, quasi fisica, incontrollabile a dispetto di qualunque rigore, dell’adattamento visivo.

Tutto quello che si vede e si sente: ogni centimetro quadrato del fotogramma, ogni suono rubato dal microfono. Le inquadrature enucleate e reiterate, con un campo visivo delimitato dalla focale, moltiplicano e dilatano il senso espressivo ed emotivo dell’immagine nel suo insieme. Ma c’è altro in Un couple. Si rivedono le tracce che si nascondono negli oggetti, negli elementi vivi e fecondi, nelle stanze e nelle rovine del nostro comune passato. È il racconto collettivo di un incessante divenire: un viaggio alla ricerca del tempo perduto attraverso le dimore dell’anima e i simboli universali della vita, per trovare le radici di ciò che siamo diventati. La leggerezza di Wiseman suggerisce sempre uno stare sopra, sempre oltre, in obliquo. Ecco un’altra illusione del suo cinema: l’apparente e ingannevole frontalità, l’ossessiva ricerca del punto nevralgico da cui inquadrare. Niente di più forviante: siamo dinanzi invece al sovrannaturale di chi è leggero e che opera quello scarto ineguagliabile per cui non si riconosce alcuna realtà alle altre misure temporali, non al passato ma neanche al futuro. Wiseman ci cattura, predati dall’illusione di vivere in un eterno oggi, nutrito di qualunque altra dimensione della durata.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.3
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Il voto dei lettori
2.78 (9 voti)
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