Un figlio di nome Erasmus, di Alberto Ferrari

C’è lo scarto tra una bella storia e il film che ne disperde una buona parte. Malgrado la prova convincente dei protagonisti, manca la nostalgia del cinema on the road. In streaming su Chili

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La nostalgia nella commedia italiana a volte parte da un viaggio. Le soluzioni per alimentarla possono essere diverse. Una foto, un ricordo, una canzone, un flashback, una lettera. A volte può bastare una traccia narrativa, altre volte invece è insufficiente anche una storia articolata nella scrittura. È quello che accade a Un figlio di nome Erasmus, terzo lungometraggio di Alberto Ferrari che segna il suo ritorno alla regia a 15 anni da La terza stella con Ale e Franz. Apparentemente non sembra mancare nulla. C’è un evento che in qualche modo costringe gli amici a ritrovarsi. Ci sono vecchi contrasti del passato ancora non risolti. Infine la presa di coscienza liberatoria che fa capire ai protagonisti che la loro vita può cambiare. La nostalgia, si diceva. Lì non bastano formule, il ‘toga toga’ di John Belushi e conseguenti battute che vanno a vuoto come “Vi meritate Despacito“. Oppure l’arrivo a Lisbona che, chissà perché, deve per forza cominciare come un viaggio turistico. O infine l’incontro casuale dopo molti anni con un’affascinante insegnante di fotografia interpretata da Carol Alt. È questione di chimica, come nell’attrazione tra due persone. C’è o non c’è.

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Ascanio, Jacopo, Luca ed Enrico si ritrovano dopo 21 anni. Avevano fatto insieme l’Erasmus poi si sono persi di vista. Ricevono una telefonata in cui gli viene detto che Amalia, la ragazza che avevano amato ai tempi del loro viaggio in Erasmus nel 1999, è morta. Partono per Lisbona per partecipare ai funerali. Lì vengono a scoprire che la donna ha avuto un figlio e uno di loro è il padre. Aiutati da una ragazza del posto, Alice (Filipa Pinto), cercano di rintracciare il ragazzo diventato ormai ventenne. E il viaggio diventa l’occasione per riflettere sulle loro esistenze.

Scritto dal regista con Gianluca Ansanelli (i due avevano già collaborato alla serie Distretto di polizia), Un figlio di nome Erasmus è sicuramente supportato dalla misurata prova dei quattro protagonisti. E tra Daniele Liotti, Ricky Memphis e Paolo Kessisoglu emerge soprattutto la prova matura di Luca Bizzarri, che trova l’ideale equilibrio di un personaggio erede della commedia all’italiana sospeso tra commedia e dramma. Ma i meriti del film sembrano finire qui. Lo schema innanzitutto riprende in modo fin troppo meticoloso quello del cinema on the road di Gabriele Salvatores. Un figlio di nome Erasmus è una specie di rivisitazione di Marrakech Express oltre 30 anni dopo. Ci sono sempre quattro amici che devono partire all’improvviso. Qui il Portogallo lì il Marocco. Qui una morte, lì un amico finito nei guai perché trovato in possesso di droga. Inoltre due dei quattro personaggi sembrano usciti da un film di Verdone, dallo scalcinato manager interpretato da Ricky Meemphis all’architetto che sta per sposarsi con una ragazza isterica e il suocero invadente. Ma soprattutto il risveglio dopo la sbornia in discoteca è probabilmente la caduta più evidente. Voler rifare un momento clou di Una notte da leoni con quell’indifferenza, ci è parso un colpo basso. Nei confrontiidi una trilogia fondamentale nel cinema americano dopo gli anni Duemila.

In Un figlio di nome Erasmus non si sente l’emozione di tornare nei luoghi del passato. Non basta una foto in bianco e nero sui titoli di testa o urlare a squarciagola “Non restare chiuso qui, pensiero”, anche se l’apparizione di Roby Facchinetti è una riuscita intuizione. Sta qui lo scarto tra una bella storia e il film che ne disperde una buona parte. Perché da una parte il film non sa rinunciare allo sketch improvviso, come quello in cui Jacopo scopre  che la sorella ha una relazione con un’altra ragazza perché il collegamento video del PC è rimasto aperto. Dall’altra invece spinge sull’acceleratore per creare quella dimensione più ‘sentimentale’ che non aveva utilizzato precedentemente. Emergono così poeti cubani della Rivoluzione che ci dice di fare tre cose nella vita: 1) piantare un albero; 2) fare un figlio; 3) scrivere un libro. E vengono anche a galla i difetti di una commedia italiana che a un certo momento si mette a dire tutte le (troppe) cose di cui non aveva parlato prima. Anche per questo, forse, ci si distacca sempre di più dalla storia. E il finale, che poteva essere toccante, risulta solo consolatorio.

 

Regia: Alberto Ferrari
Interpreti: Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu, Ricky Memphis, Daniele Liotti, Carol Alt, Filipa Pinto
Distribuzione: Eagle Pictures
Durata: 107′
Origine: Italia, 2020

 

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.32 (22 voti)
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