Un sogno lungo un giorno, di Francis Ford Coppola
Dopo Apocalypse Now, si ha l’illusione di tornare nella zona protetta di un set controllato. Un magnifico e “banale” film sulle gabbie del sogno e sulla necessità di tornare alla realtà. Su MUBI

L’invenzione di Las Vegas. È la prima cosa che salta agli occhi in Un sogno lungo un giorno: l’aspetto palesemente fantastico della città. Sin da quei titoli di testa scintillanti, con i nomi che sfilano sui cartelloni luminosi dei casinò e con la sabbia che modella le curve di un corpo di donna. Ma Las Vegas è già di per sé un luogo irreale e inventato, eretto dal nulla nel bel mezzo del deserto del Mojave e trasformato ben presto in un enorme parco d’attrazioni, sospeso tra la dannazione del peccato e il Paradiso. La città, come dice Coppola, in cui in un istante puoi essere “in cima al mondo” e il minuto dopo ritrovarti “in un vicolo, con un occhio nero”. Per questo è l’ambientazione perfetta per una “favola” popolata di visioni, presenze magiche, sogni, forse incubi. Ma a Francis Ford Coppola la Las Vegas reale non basta. Ha bisogno di crearne un doppio ancor più artificiale, di metterne a punto un modello che moltiplichi in maniera esponenziale la finzione già esplicita dell’originale. Per questo, decide di far ricostruire interi scorci di città nei suoi Zoetrope Studios: un incrocio sovraffollato di negozi, locali e sale da gioco, la casa del quartiere di periferia dove vivono Hank e Frannie, con una strada che guarda allo skyline del centro in lontananza, il deposito di auto nel deserto, l’aeroporto McCarran, duplicato da zero, persino la cabina di un aereo… Uno scenario disegnato dalle scenografie di Dean Tavoularis e illuminato dalla fotografia di Vittorio Storaro, a cui subentra, nelle vicissitudini della produzione, Ronald Víctor García. Su cui poi innestare le evoluzioni di coreografie musical sulle note di Tom Waits, accompagnato dalla voce di Crystal Gayle. Il sogno perfetto, forse…
Certo, agli inizi degli anni ’80, il ritorno alla situazione confortevole di un set “chiuso” risponde a un’esigenza reale di Coppola, psicologica ed economica: dopo l’impresa infernale di Apocalypse Now, la tracotanza di una sfida ai luoghi indomabili della giungla, tra tifoni, guerriglie, attacchi cardiaci, segni di esaurimento nervoso e di follia, è ora di tornare a casa. Nella zona protetta di uno studio di produzione perfettamente controllato. Eppure, Coppola non è tipo da reti di protezione. E, in effetti, la storia dice che le cose andarono diversamente. I costi di produzione lievitarono inesorabilmente, arrivando a 26 milioni di dollari, tra modellini, sfondi di scenografia, sperimentazioni con l’immagine elettronica per pianificare ogni sequenza prima della ripresa in pellicola. Alla sua uscita, nel 1982, il film incassò poco più di 600 mila dollari, sancendo di fatto la catastrofe della Zoetrope. Ma perché? Nonostante sembrasse guardare al passato, era troppo avanti per i tempi? Sicuro, il solito triste destino di Coppola. Ma forse anche perché alla base c’è un fraintendimento.
La verità è che con Un sogno lungo un giorno, Coppola dà solo l’impressione di un ritorno al “c’era una volta”. Invece è intento a tracciare a mano libera, senza più i condizionamenti delle pressioni esterne, i contorni di un progetto che sa di mondi utopici, di fatto la prima ipotesi della sua megalopolis, per poi strappare il foglio, far naufragare il disegno nel caos di uno schizzo non ancora decifrabile. Sì, Coppola sa benissimo che il cinema, innanzitutto quello classico, tende a farsi e consumarsi in un’altra dimensione. Sotto la campana di protezione di un rifugio “sicuro”, in cui le strategie produttive e le logiche della vita raccontata si tengono al riparo dagli imprevisti della vita reale. Ma questo non vuol dire affatto una vittoria dell’immaginario. Anzi.
L’impressione è che per i personaggi del film non ci sia mai abbastanza spazio. In fondo, soprattutto in fondo. Sebbene i set ricostruiti diano l’illusione di comporre un unico gigantesco palcoscenico senza soluzione di continuità, pur sempre di un “palco” e di una convenzione si tratta. La profondità è solo un’illusione di prospettiva, a cui manca il reale punto di fuga, l’orizzonte in lontananza verso cui proiettarsi, l’ipotesi di un’uscita o l’intuizione di un nodo di collegamento. E neanche le coreografie del musical, le tante performance spettacolari, neanche i magici cambi di illuminazione che seguono i ritmi del cuore, valgono a dare una sensazione di apertura e libertà. Anzi, definiscono senza mezze misure lo spazio come il teatro di una rappresentazione. Magari risponde anche a questo motivo quel formato in 4/3, così prepotentemente televisivo, che non permette allo spazio di aprirsi. E il risultato è che, tra le trame di questa città, Hank e Frannie, ma anche Leila, Ray, Moe, Maggie, appaiono sempre ingabbiati, “costretti”. Dove potrà mai portare quella strada in cui sorge la casa dei protagonisti? E cosa c’è davvero dietro le facciate lì intorno, alle spalle di quei giardinetti? Il mondo scintillante di Un sogno lungo un giorno assomiglia a quell’inquietante saggio di architettura che è la Strada Novissima della Biennale di Paolo Portoghesi (1980). Un affaccio sul nulla.
Ma anche a questa vita si è costretti. Ed eccoci, dunque, al racconto, alla storia del film. Alla stanchezza, alla voglia di evasione e di fuga della coppia, già logorata da 5 anni di rapporto. È soprattutto Frannie che sogna spiagge esotiche, nei cieli assolati e nei tramonti di Bora Bora. Eppure la realtà è questa, è un affare necessario di un quotidiano da mandare avanti, tra bollette da pagare, lavori precari, aspirazioni rinchiuse nei monolocali in affitto. Dove l’amore è fatto di gioia, ma anche di noia… E se il cinema può essere un’evasione di fantasia, l’espressione un’ipotesi controfattuale del mondo, rischia anche di trasformarsi in una gabbia ancor più soffocante. In fondo questa piccola storia esile, “banale”, completamente fraintesa e sottovalutata da molti, è il corrispettivo esatto, più puntuale, alla forma inventata da Coppola. Perché ci dice che bisogna uscire dalla sala buia, tornare alla luce là fuori. O meglio, bisogna muoversi in continuazione, entrare e uscire. Abbandonarsi alle proiezioni di questo sogno lungo un giorno, per poi svegliarsi al nuovo giorno di un mondo che non è un sogno. E che pure si nutre, tra le altre cose, di sogni. Di illusioni e di speranze. Del resto, ci vuole coraggio da vendere e una buona dose di incoscienza per pensare che, nonostante tutto, ci sarà un futuro insieme.
Titolo originale: One from the Heart
Regia: Francis Ford Coppola
Interpreti: Frederic Forrest, Teri Garr, Raul Julia, Nastassja Kinski, Harry Dean Stanton, Lainie Kazan
Distribuzione: MUBI
Durata: 99’– 95’ (One from the Heart: Reprise, 2023)
Origine: USA, 1982