Un trionfo di bellezza, seduzione e (troppa) sensorialità: la mostra su Alphonse Mucha a Palazzo Bonaparte
Siamo stati alla mostra sul padre dell’Art Nouveau aperta fino al prossimo 8 marzo nel palazzo affacciato su Piazza Venezia. Straordinaria ma con qualche piccola riserva
“L’arte svolge un ruolo fondamentale nella crescita spirituale dell’uomo… Eleva lo spirito umano attraverso l’armonia e la bellezza verso una moralità superiore“. Sentenza etica universale, frase di afflato irenistico, altissima dichiarazione di poetica, questa scritta campeggia proprio a metà del percorso espositivo di “Alphonse Mucha: un trionfo di bellezza e seduzione“, la mostra che si tiene al Palazzo Napoleone di Roma fino all’otto marzo e che abbiamo potuto visitare. La scelta di concludere una delle operazioni culturali più importanti per la capitale proprio per la Giornata internazionale della donna la dice lunga sul female gaze con con cui l’organizzatore Arthemisia ha cercato di guardare al lascito dell’artista ceco (Ivančice, 24 luglio 1860 – Praga, 14 luglio 1939), come rivendicato con orgoglio dalla sua amministratrice Iole Siena durante la conferenza stampa di presentazione. Uno sguardo che mosso dall’entusiamo di voler riportare a Roma a quasi dieci anni di distanza dall’ultima importante mostra al Vittoriano le opere del padre di uno dei movimenti artistici più apprezzati dal grande pubblico e, allo stesso tempo, più riproducibile tecnicamente per i suoi caratteri fieramente codificati, ovvero quell’Art Nouveau che si esaurì come uno straordinario fuoco fatuo tra fine Ottocento e inizio Novecento, rischiava di ricoprire di istanze contemporanee un autore che invece era immerso profondamente nel proprio tempo.
Prodotta e organizzata da Arthemisia con la preziosa collaborazione di Mucha Foundation e i Musei Reali di Torino, in partnership con Generali Valore Cultura e la Fondazione Terzo Pilastro Internazional, Alphonse Mucha. Un trionfo di bellezza e seduzione riesce ad evitare questo pericolo facendosi innanzitutto forte sia della propria ricchezza espositiva sia dell’approccio non esclusivamente monografico. Nelle oltre 150 opere che contrassegnano la retrospettiva vi sono infatti i maggiori capolavori del pittore e fotografo slavo (tra cui Gismonda, 1894; Médée, 1898; JOB, 1896; la serie The Stars del 1902 o quella sulle Pietre Preziose del 1900 o ancora gli studi sull’Epopea Slava provenienti dal Mucha Museum di Praga) ma anche dipinti, sculture e ceramiche di altri autori, chiamati quasi a contrappuntare o fornire una diversa scala tonale alla ricerca compiuta da Alphonse Mucha durante la sua carriera. Il primo e il più pubblicizzato di questi sorprendenti accostamenti è la Venere di Botticelli (1485-1490), prestata in via del tutto eccezionale dai Musei Reali – Galleria Sabauda di Torino e presente in una sala del primo piano in una posizione fin troppo sacralizzata (ma questo è un marchio di fabbrica di Arthemisia che anche nelle mostre su Van Gogh e Munch aveva innalzato nella stessa stanza-tempio i prestiti più importanti). La curatela di Elizabeth Brooke e Annamaria Bava, con la direzione scientifica di Francesca Villanti, compie comunque un discorso speculativo molto coraggioso che rinunciando quasi del tutto al più guercio biografismo – mancano infatti, per fortuna, il classico e scolastico studio sulle influenze del pittore e l’altrettanto deleterio chiacchiericcio sulle sue frequentazioni illustri – preferisce difatti porre l’opera di Alphonse Mucha come un tassello coerente all’interno di alcune delle massime manifestazioni artistiche che hanno fatto della donna il proprio oggetto di studio. Ecco allora che le tre opere di Giovanni Boldini e, soprattutto, la straordinaria “A Babilonia (Semiramide)”, di Cesare Saccaggi – questa sì posizionata in maniera eccelsa e impattante a fine del percorso – aprono un’ottica foriera di spunti e stimoli speculativi per le tante dissertazioni-pennellate consegnate dal pittore ceco ai suoi contemporanei come indice di una riflessione non più procrastinabile sul ruolo femminile nella società.
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La sezione su Sarah Bernhardt, la celeberrima attrice parigina al centro delle opere più famose di Mucha, è senza ombra di dubbio la parte più riuscita di questo viaggio che quasi suggerisce, almeno in una prima fase, la posizione ancillare del maschio cartellonista rispetta alla Divina di Francia, in un ribaltamento di ruoli che il diverso potere economico finalmente non aveva più bisogno di nascondere. Più che l’esplosione cromatica delle sue affiches o il branding degli oggetti di consumo – notevoli gli originali pacchi di biscotti/posate/profumi o le illustrazioni dei libri – sono difatti le rivisitazioni delle stagioni, delle muse e perfino di alcuni episodi dell’Epopea slava sotto le floreali e graziose forme di giovani fanciulle a rappresentare l’eredità più duratura delle opere di Alphonse Mucha, a testimonianza di come il Mito e la Storia a fin de siècle si siano accordati, purtroppo per un breve e irripetibile periodo, a cantare lo stesso spartito di uguaglianza di genere. Arrivati alla troppo breve chiusura dedicata ai raccoglitori del suo patrimonio spirituale – cui manca, speriamo per dimenticanza e non per ragioni campanilistiche, l’opera di Yoshitaka Amano, visitabile ancora per poco nel poco distante Palazzo Braschi – non si può che salutare con rammarico un percorso espositivo intellettualmente centrale anche nel 2025 proprio quando più è stato ostinatamente scentrato.
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Peccato che in un’esposizione così squisitamente inserita nell’architettura neoclassica del restaurato Palazzo Bonaparte, lo spazio dedicato alle escursioni sensoriali/sinestetiche, qui rappresentate dai profumi di Laura Bosetti Tonatto e i giochi pedagogici sul simbolismo usato dall’artista, non riesca ancora ad uscire dalla dimensione “gabinetto delle curiosità: questi esperimenti sembrano, purtroppo, ancora pose anti-accademiche piuttosto che modi interdisciplinari di ampliare lo studio. Ne è sommo riassunto il gioco di specchi dell’ambiente più tridimensionale della mostra che, occhieggiando con troppa compiacenza alla moda delle mostre immersive, rimane ingabbiato dentro il ludico sfruttamento social ex-post. Forse giova ricordare il monito anticonsumista del pittore ceco, quando, all’Esposizione Universale del 1900, Mucha stesso dovette imparare a difendersi dai primi commerciali tentativi di replicare le sue formule stilistiche: “La mia arte, se così si può chiamare, si cristallizzò, divenne di moda. Si diffuse tra fabbriche e laboratori col nome di «stile Mucha» e all’esposizione si è dovuto rimuovere un gran numero di oggetti per prevenire le violazioni di copyright“. Ecco che, più poeticamente, ci si sarebbe potuti fermare all’origine del suo sense of wonder così respirabile nelle altre belle sezioni della mostra: “La meravigliosa poesia del corpo umano… E la musica di linee e colori che si sprigiona dai fiori, dalle foglie e dai frutti sono i migliori maestri per i nostri occhi e il nostro senso estetico“
























