Un uomo chiamato attore: Richard Harris

Se n'è andato a settantadue anni Richard Harris, attore capace di trasformare l'arte recitativa in impasto raffinato e muscolare di tanti diversi umori, tutti racchiusi in una raffinatezza espressiva di stampo classico.
Dal Free Cinema al western anni '70 fino al grande successo di “Harry Potter”

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Aveva settantadue anni Richard Harris quando è improvvisamente deceduto all'University College Hospital per un grave linfoma che lo aveva colpito ormai già da qualche tempo. Ci era sembrato in gran forma nelle sue ultime apparizioni cinematografiche, che sembravano avergli restituito nel giro di pochissimo una sorta di dolce seconda giovinezza artistica.


Harris era nato il primo ottobre del 1930 a Limerick, un piccolo centro irlandese, dove sin da piccolo aveva cominciato ad esercitare la sua grande passione per la recitazione. A teatro, ma non solo. Erano gli anni '50 e incominciava a farsi strada in Europa un nuovo fervore intellettuale, culminato dopo poco tempo con la nascita delle "nouvelle vague" europee di cui Harris fu uno dei tanti portavoce. Parliamo di Free Cinema allora, e delle nuove configurazioni utopiche della società che andava configurando. Io sono un campione di Lindsay Anderson (1964) fu una delle opere di punta di quel periodo, una sorta di film manifesto in cui Harris interpretava un giocatore di rugby all'interno di una periferia industriale oltremodo degradata. Grande immedesimazione nel ruolo, ma soprattutto eccezionale vigore espressivo che all'interno di un racconto virato prepotentemente in una cornice realistica dai toni aspri e severi, faceva già ben sperare per il futuro dell'attore. Non passò inosservata comunque quest'interpretazione, tanto che valse all'attore il premio al festival di Cannes e una nomination all'Oscar. Alto, slanciato, dal fisico asciutto, capace di inaspettati guizzi di rabbia e di nervosismo, Harris rappresentò come nessun altro una sorta di prototipo di proletario arrabbiato, in grado però di riscattare continuamente la propria presenza attraverso un uso assolutamente classico (per certi aspetti quasi parcellizzato) dei propri mezzi espressivi. Dopo l'opera di Anderson, il salto definitivo verso un cinema di altissime qualità artistiche. Stiamo alludendo al Deserto rosso di Antonioni (1964), primo film a colori del regista ferrarese, opera in cui Harris, con un'apparenza fisica stralunata e quasi surreale, presta benissimo il suo fisico dinoccolato all'impressione di realtà sfuggente e metafisica messa in moto da Antonioni. Duetta con Monica Vitti e affronta una messinscena basata sul campo lungo e sull'assenza quasi costante di dialoghi, raggiungendo una sorta di simbiosi corporea con la realtà post-industriale in cui è immerso. Vi sono degli istanti in cui quasi non lo riconosciamo più, tanto è calato all'interno di una prospettiva quasi smaterializzante, eterea, sfuggente. Giunto subito dopo ad Hollywood, Harris si imbatte in uno dei maestri del cinema moderno, Sam Peckinpah, che lo scrittura per Sierra Charriba, western del 1964 che, con il parallelo Per un pugno di dollari di Leone, avvia  la riscrittura di un intero genere (quello western), improntandolo su coordinate autoriali che rifuggono da ogni sorta di connotazione patinata e irreale. Harris riesce a donare al suo personaggio un ritratto vivido come non mai, caratterizzato da improvvise accensioni e da momenti di pura violenza verbale e non, che fecero dimenticare (sia pure per poco) la cornice umana idealistica che si agitava nei ritratti del western anni '50.

 

Dopo aver interpretato Caino nella colossale Bibbia prodotta da De Laurentiis  e diretta da John Huston, giungiamo al vero cuore dell'avventura  artistica dell'attore, quegli anni '70 che lo consacrarono come corpo parlante di intera generazione d'attori (e di rispettivi ruoli). Un uomo chiamato cavallo allora diretto da Silverstein, opera che si poneva come capostipite di una serie di film incentrati sulla rivalutazione dell'elemento indiano e inspirati ad una sorta di revisione dello stereotipo in cui gli indiani erano sempre stati relegati. Ci sarebbero diverse cose da dire sull'opera e sul sentimento ideologico da cui nasce, ma non vogliamo entrare nel merito di uno specifico filmico che ci appare oggi molto datato e per certi versi ambiguo. Harris comunque dà tutto se stesso nella parte del bianco che comincia a vivere con gli indiani dopo aver affrontato delle terribili prove di sopravvivenza, riuscendo ad esprimere con accenti umani preziosi e passionali il dramma del singolo, sublimato in catarsi della coscienza di un intero popolo. Non smettiamo di dire che Harris è estremamente fisico nella recitazione, duro, quasi brutale, eppure capace di sfumature psicologiche impensabili, ispirate ad una finezza interpretativa che gli permetteva di passare da un registro all'altro dell'espressione, senza fratture, senza iati intermedi. Il seguito dell'opera di Silverstein sembrò dunque d'obbligo visto il successo, tanto che Harris girò qualche anno dopo La vendetta dell'uomo chiamato cavallo, stavolta però diretto da Richard Sarafian con una spiccata tendenza a favorire l'elemento della cornice (ispirata ad un naturalismo un po' vecchiotto, riscattato da qualche buona intuizione cromatica) su quello umano. Le porte di Hollywood si aprirono dunque completamente per l'attore irlandese che iniziò a metà anni '70 una serie di opere non eccelse che contribuirono però in maniera determinante a farlo amare dal grosso pubblico, quello che fremeva nelle sale per Cassandra Crossing, e che riconobbe in lui un grande Riccardo cuor di leone (Robin e Marian). Eppure delle ultime interpretazioni di Harris non possiamo non citare quella legata ad uno dei film più cruciali degli ultimi vent'anni, Gli spietati di Eastwood, in cui Harris interpreta uno stanco ed elegante pistolero giunto nel paese sbagliato per i soldi di una taglia. Viene pestato a morte dallo sceriffo (Gene Hackman), se ne esce con delle insospettabili pillole di saggezza con cui ammansisce i suoi interlocutori, se ne va infine gettando un'ultima triste occhiata dal finestrino del treno su cui viaggia. E' un'interpretazione perfetta, un utilizzo calibrato e controllatissimo di tanti umori diversi, capaci di culminare quando meno te lo aspetti in un guizzo improvviso degli occhi, in uno scatto repentino del corpo. Tutto ciò, dettato da un profondo istinto espressivo che lo portava ad essere il miglior regista di se stesso, in grado di dettarsi tempi e pause che sono ancora delle piccole lezioni di recitazione. Dopo una fulminea apparizione nel Gladiatore di Scott, Harris ha contribuito in modo determinante al successo planetario di Harry Potter, interpretando un sublime vecchio mago pieno di acciacchi, ma ancora in grado di trasformare la realtà in un miscuglio magico e potente di fantasia e di menzogna, di tenerezza e di malinconia. La seconda parte delle avventure del giovane mago sta per uscire nei cinema di tutto il mondo, ed è uno dei film più attesi dell'anno, nonché l'ultima interpretazione del vecchio leone Harris. Vederlo ancora una volta sarà un bel modo per salutarlo. Ringraziandolo.

 

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