Una mamma contro G.W. Bush, di Andreas Dresen

Disinnesca attraverso l’ironia i sensazionalismi tipici delle grandi storie antisistema. Ma l’accondiscendenza con cui tratta la complessità del tema lo priva di incisività e spessore drammatico.

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Tra l’inizio e la fine di Una mamma contro G.W. Bush si posizionano un paio di momenti significativi, contrassegnati entrambi dai volti di due capi di Stato di stampo conservatore, visibili sullo schermo del televisore. Il primo è quello di Bush Jr., all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle. Il secondo è quello di Angela Merkel, al momento della sua elezione a Cancelliere Federale della Germania. La camera sembra inquadrarli allo stesso modo, con l’immagine televisiva che si sostituisce idealmente a quella cinematografica. Eppure le due “apparizioni” non possono essere più diverse. Se la prima restituisce la figura dell’alterità, di colui che nel corso del racconto sarà esaltato a simbolo e portavoce delle ingiustizie del sistema antiterroristico americano, la seconda assume una valenza propriamente opposta, quasi salvifica. Non solo per la rapidità con cui il neo-eletto governo rimedia agli errori politico-burocratici della precedente amministrazione tedesca, ma per ciò che il vento del cambiamento comporta per la disperata protagonista del film. Rassegnata in quel momento, dopo anni di sforzi e battaglie, alla possibilità che il figlio non ritornasse più dalla prigione cubana di Guantánamo.

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Partendo da fatti realmente accaduti, Una mamma contro G.W. Bush racconta l’odissea legale (ed emotiva) che la casalinga turca Rabiye Kurnaz (Meltem Kaptan) ha dovuto affrontare dal 2001 al 2006 per accertare l’innocenza del figlio, e assicurarne il ritorno in Germania dal terribile campo di detenzione. Come molti dei detenuti di Guantánamo di quel periodo, il giovane Murat non aveva legami con Al Qaeda né affiliazioni di alcun tipo ad organizzazioni di matrice terroristica. La sua unica colpa era quella di trovarsi a Karachi, in Pakistan, dove soggiornavano alcuni dei terroristi responsabili dell’attentato. Una situazione già di per sé drammatica, che Andreas Dresen sceglie però di raccontare attraverso i canoni della commedia. In modo da ripercorrere la (stra)ordinarietà della questione, attraverso le emozioni e le derive più eminentemente ridicole della quotidianità.

In questo senso le fatiche, i dubbi e le battaglie forsennate di Rabiye e del suo avvocato Bernhard Docke (Alexander Scheer) si aprono agli occhi del pubblico come squarci di vita sul quotidiano, con tutte le ripercussioni che ne conseguono a livello di comunicazione emozionale. Vedere il coraggio di una madre nel trascendere l’impossibile diventa così per lo spettatore la via preferenziale all’empatia, e per il film un modo (anche un po’ buonista e accondiscendente) di disinnescare attraverso l’ironia i sensazionalismi tipici delle grandi storie di rivalsa antisistemica. E alla pari di opere come Philomena o Erin Brockovich questo Una mamma contro G.W. Bush riesce a legare con fluidità il tropo narrativo del “Davide contro Golia” al carisma travolgente delle sua (comunque terrena) eroina. Il problema semmai sta nella leggerezza con cui sorvola sulle ramificazioni socio-politiche dietro la battaglia. Nella propensione ossessiva ad edulcorare una materia più complessa e articolata di quella testimoniata dalle immagini del racconto. Anche (e soprattutto) in merito alle sue conseguenze più critiche. A cui la ruminazione del quotidiano sembra quasi voler sfuggire. Perché a Dresen qui, interessa solamente il particolare: dare cioè vita al ritratto sincero e fedele di una madre, alle prese con situazioni radicali che la spingono ad interrogarsi sulla natura della sua maternità.

Titolo originale: Rabiye Kurnaz gegen George W. Bush
Regia: Andreas Dresen
Interpreti: Meltem Kaptan, Alexander Scheer, Charly Hubner, Abdullah Emre Ozturk, Nazmi Kirik, Alexander Horbe
Distribuzione: Wanted Cinema
Durata: 119′
Origine: Germania, Francia, 2022

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