"Una settimana da Dio", di Tom Shadyac

Shadyac scrive direttamente sulla fisicità di Carrey, fissando sulla retina lo spettro di un'architettura filmica tanto passionale, quanto appunto scoperta, affiorante come segno di vita nascosta.

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Il ritorno del cinema di Tom Shadyac. Dopo la follia tentata con Dragonfly (dare forma a quegli spazi invisibili che separeranno sempre dalla comprensione dell'altro, in fatto di amore e di amicizia), dove aveva disegnato il sublime corpo di Kevin Costner e le sue continue tensioni verso la riscoperta della morte della moglie in Una settimana da Dio ritrova Jim Carrey (aveva già girato con lui i due episodi di Ace Ventura), lo invita ad una rimpatriata tra amici ed esce fuori uno di quei film veramente magici. Nulla di trascendentale comunque (e cioè serioso, accademico, freddo), anzi. Shadyac si permette di tirare in ballo la figura di Dio (luce bianca su sfondo nero visto che si tratta di Morgan Freeman), i meccanismi infernali della vita di oggi, lo stress del lavoro, ma lo fa con leggerezza, accumulando quasi per caso momenti di sbandamento puro (Carrey in preda all'euforia che cammina per le strade della sua città) che sprigionano forze insospettabili, sì comiche, ma più di ogni altra cosa umane. Quello di Shadyac è un cinema che per certi versi si avvicina a quello dei Farrelly (specialmente poi nell'utilizzo del corpo di un Carrey davvero montabile/smontabile a seconda dell'occasione), ma che ha anche il coraggio di seguire una retta autoriale in fin dei conti assolutamente indipendente. C'è qualcosa di davvero insolito nel modo in cui filma la semplicità di un incontro (quello tra Carrey e Freeman che sembra filmato da un Silberling, ma anche quello in cui il protagonista, dopo aver fatto le veci di Dio per una settimana, rivede la consorte con occhi nuovi), la quotidianità delle cose e la sublime ingenuità dell'uomo qualunque Carrey. Un'aria anacronistica, lieve (simile in questo al Ramis di Ricomincio da capo), estremamente sensibile alla lezione del cinema americano classico, qui citato con apparizioni/sovrimpressioni del fantasma di Frank Capra che fa capolino sulla scena più di una volta. Si tratta di un omaggio assolutamente sincero, venato di sfumature che appartengono appieno alla linea artistica di Shadyac/Carrey: il segreto della classicità perduta sta proprio nel cercare di giungere alla definizione di uno sguardo che si posi silenziosi sui corpi descritti, seguendone i passi, i movimenti, le decisioni. In più, aggiungiamo anche che il cinema ha il dovere di interrogarsi sull'essenza dei rapporti descritti, ma anche quello di provarne a raccontarne i vuoti, alfabetizzando traiettorie e sguardi, nomi e situazioni. Quello che insomma fa Shadyac, scrivendo direttamente sulla fisicità di Carrey (qui continuamente diviso tra la gestualità folle di Ace Ventura e quella contenuta di The Majestic) e fissando nelle nostre retine lo spettro di un'architettura filmica tanto passionale, quanto appunto scoperta, affiorante come segno di vita nascosta (il ritrovamento finale del Costner di Dragonfly e quello del Carrey di quest'opera sono due momenti pieni, sanguigni, materici, eppure misteriosamente impalpabili e sfuggenti), e raccontata con un senso di partecipazione a cui non intendiamo resistere.

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Titolo originale: Bruce Almighty
Regia: Tom Shadyac
Sceneggiatura: Steve Koren, Mark O'Keefe, Steve Oedekerk
Fotografia: Dean Semler
Montaggio: Scott Hill
Musiche: John Debney
Scenografia: Linda Descenna
Costumi: Judy Ruskin Howell
Interpreti: Jim Carrey (Bruce Nolan), Morgan Freeman (Dio), Jennifer Aniston (Grace), Philip Baker Hall (JCK Keller Aylor), Catherine Bell (Susan Ortega), Lisa Ann Walter (Debbie), Steven Carell (Eban Baxter), Tony Bennett (se stesso), Timothy Dipri (operatore), Nora Dunn (Ally Loman), Eddie Jemison (Bobby), Mark Kiely (Fred Donohue), Sally Kirkland (Anita), Paul Satterfield (Dallas Coleman), Brian Tahash (microfonista)
Produzione: Universal Pictures, Shady Acres Entertainment, Partizan, Interscope Communications, Beverly Detroit, Pit Bull Productions
Distribuzione: Buena Vista International Italia
Durata: 101'
Origine: USA, 2003

 

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