UNA STORIA VERA (The Straight Story), di David Lynch

È peculiarità del cinema di David Lynch di far emergere l’inadeguatezza della stragrande maggioranza della critica di fronte a un cinema genuinamente libero e in costantemente movimento di ristrutturazione delle sue articolazioni immaginarie e mitopoietiche. Non meraviglia infatti che di fronte alla rarefazione del tempo, della velocità e dei corpi di The Straight Story molti non abbiano saputo dire di meglio se non che Lynch aveva “divorziato” dalla visionarietà di Strade perdute. Ora: sarebbe sin troppo facile dimostrare che così non è. Tutto l’incipit, per esempio, memore degli orrori “periferici” di Velluto blu, non fa altro che riaffermare la matrice primaria del cinema lynchiano. Ossia indagare con gli strumenti del cinema ciò che si agita al di sotto del pelo delle immagini. Se in Strade perdute si trattava di evidenziare il perenne rigenerarsi immateriale dei corpi ruotanti intorno al paradigma base della seduzione noir, Una storia vera evidenzia invece il movimento centrifugo che conduce, dolcissimamente, alla dissipazione dei corpi che permettono al cinema di muoversi. Di spostarsi in avanti. Ma sempre di corpi e di desiderio si tratta. Ed è infatti attraverso questi due termini che si attua la seduzione del Lynch sui nostri sensi. Per Lynch i corpi sono autentiche sonde dell’immaginario. Si sbaglia chi vede in Una storia vera una sorta di riappropriazione “documentaria” del paesaggio americano. Nel film vive semmai una fantasmizzazione della percezione della frontiera e del confine. Più vicino al Van Sant di My Own Private Idaho (nel quale si viaggiava senza muoversi, dormendo, per ritornare sempre allo posto) che ai padri della classicità USA, Lynch scopre il viaggio come deriva sensoriale di un corpo giunto al suo crepuscolo. Attraverso l’infinita dolcezza di un movimento “pulviscolare”, Alvin Straight anticipa il proprio viaggio nell’Aldilà come una sorta di ricognizione dei luoghi delle sue storie. L’orizzontalità del film ci sembra più prossima una serie tableaux vivants iperrealistici piuttosto che quella della mitologia western. Galleria di fondali mobili (che si possono intuire solo viaggiando lentissimamente a fianco dell’immagine), Una storia vera è lo scorrere impercettibile del mondo di fronte a un corpo che si appresta fermarsi (meglio: a diventare altro). Se per Van Sant il viaggio è una sorta di attività onirica (dislocamenti spaziotemporali attivati dalla narcolessia), per Lynch il viaggiare coincide con la leggerezza del corpo bambino (che sta per “morire”). Solo in questo modo si può riprendere a osservare il mondo e il suo articolarsi attraverso le pieghe del tempo. Lo scarto tra Strade perdute e Una storia vera risiede nel muovere, nel primo caso, dal cinema verso il mondo e, nel secondo invece, dallo sguardo alla percezione del mondo. In questo modo il tempo ritorna a serie una sinfonia minimale di microaccadimenti che solo un rinnovato esserci per la morte riesce a manifestare
Giona A. Nazzaro
 Regia: David Lynch

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Sceneggiatura: John Roach, Mary Sweeney

Fotografia: Freddie Francis

Montaggio: Mary Sweeney

Musica: Angelo Badalamenti

Scenografia: Jack Fisk

Costumi: Patricia Norris

Interpreti: Richard Farnsworth (Alvin Staight), Sissy Spacek (la figlia), Harry Dean Stanton (il fratello)

Produzione: Neal Edelstein, Mary Sweeney

Distribuzione: BIM

Durata: 111′

Origine: USA-Francia, 1999

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