Una vita da sogno – L’abbaglio, intervista alla regista Alessandra Cardone
In occasione del tour nelle sale pugliesi, abbiamo incontrato la regista del film Una vita da sogno – L’abbaglio per farci raccontare il suo esordio nel lungometraggio

Abbiamo incontrato la regista Alessandra Cardone per parlare del suo film d’esordio, la commedia Una vita da sogno – L’abbaglio, prodotto da Alessandro Valenti e Angelo Laudisa per Scirocco Films. Il film è attualmente in tour per le sale della Puglia.
Come esordio hai scelto una commedia che racconta di un sogno, quello del ristoratore Nicola, pronto a lasciare la sua terra e il suo ristorante per cercare una nuova dimensione a Los Angeles… Si tratterà di un abbaglio, come preannuncia lo stesso titolo del film, o resta e prevale il sogno che invita il protagonista (e in lui lo spettatore) alla ricerca di qualcosa fuori dall’ordinario e di rischioso, ma per cui valga sempre la pena?
Ogni sogno è un’arma a doppio taglio perché ove non si realizzi rischia di restare un abbaglio. Nel film è centrale il quesito: “I sogni hanno una data di scadenza? Per quanto tempo puoi continuare a credere in un sogno?”. Il protagonista dovrà capire se si tratta di un sogno o di un abbaglio. Lascio la tematica aperta. Se arriva qualcuno a farti una proposta interessante, complice il carisma del personaggio, anche un po’ il luogo, occorre fare una scelta. Qualcuno ha detto che lo ha trovato una sorta di spot pubblicitario per promuovere la Puglia, io non sono d’accordo; personalmente ho provato a uscire da certi cliché (il pasticciotto piuttosto che l’orecchietta), ma credo di esser riuscita a far vedere una Puglia fuori stagione; dei ragazzi che potevano essere ovunque e potevano provenire da qualunque posto; un personaggio, quello di Nicola, che attraverso un’evoluzione/maturazione personale, da routinario, pesante, quasi noioso, abbraccia una ventata di luce, di leggerezza.
In Una vita da sogno sembra quasi voluta la mescolanza tra cultura leccese, quella del basso Salento, e quella barese, quasi per raccontare l’ibrido linguistico e di costume di una regione che è sempre più meta di turisti. Nel tuo film la cucina pugliese ha un ruolo centrale, è quasi un’estensione culturale di questa terra, come la famiglia (rapporto padre/figlia), l’amicizia (Nicola/Johnny), lo sguardo incantato del turista.
Il cibo partecipa sì, diciamo che è un altro dei motivi che possono creare la predisposizione a sentimenti o emozioni in una persona che arriva in un luogo, come appunto l’amore, l’amicizia, soprattutto quando non hai nulla da perdere. I legami infatti da un lato possono aiutare dall’altro rappresentare un freno, per esempio quando hai radici e vuoi ponderare e riflettere meglio sulle scelte da fare potrebbero essere un ostacolo.
Le luci abbaglianti di un sogno (quello di Hollywood per Nicola) valgono il prezzo di lasciarsi alle spalle le proprie radici, la Puglia, che nel bene e nel male è il porto sicuro da cui scappare ma anche da cui non si può non ritornare?
Dipende dalle volte. Io personalmente nell’andare, nel cambiare vedo sempre un valore; il restare, il non partire per non perdere determinate cose la vedo come una scelta rinunciataria. Anche se a volte ci vuole più coraggio a restare che ad andare… Nicola per esempio non si sottrae a nulla, mai, organizza, fa e disfa, poi quando appura che le sue intuizioni erano giuste a quel punto si può permettere di dire “No non ci vado”. Quando ho letto Dubliners di Joyce mi ha colpito il racconto di Evelyne: la storia di questa ragazza, che conduce una vita monotona e di sacrifici accanto a un padre violento, che proverà a seguire il fidanzato Frank partendo in nave alla volta di un futuro insieme pieno di speranza. Eppure, una volta al porto, prevarranno ancora una volta i rimorsi e i sensi di colpa, al punto che deciderà di non partire più, rinunciando alla libertà e alla felicità per sempre. Leggere queste storie mi ha sempre messo tristezza, perché trovo inconcepibile non uscire a cercare qualcosa di nuovo. Nel cinema la stessa sensazione di immobilismo, di paralisi da parte della borghesia l’ho avuta quando ho visto L’angelo sterminatore di Buñuel… Sono affascinata invece dall’idea del viaggio e su questo tema sono usciti film molto interessanti, uno dei più recenti è Itaca – Il ritorno, un film uscito lo scorso anno, tratto dagli ultimi canti dell’Odissea.
Vittorio Bodini, nato a Bari e cresciuto a Lecce, uno dei maggiori poeti, traduttori e intellettuali del Novecento, canta una Puglia che non è solo scenario geografico ma spazio mitico e reale pieno di contraddizioni: bellezza e disperazione, orgoglio fatalista e desiderio di riscatto, senso di appartenenza e voglia di distacco. Questa dicotomia con cui Bodini regala una dimensione poetica e umana alla sua terra è molto vicina al messaggio del tuo film: un invito a vivere il proprio luogo d’origine con le sue luci e ombre, un invito a sognare nella consapevolezza che per realizzare un sogno non è necessario farlo in grande…
Secondo me è importante sognare ma anche fare qualcosa per realizzare quel sogno, se tu ci credi ci credono anche le persone che ti sono vicine, se tu sei motivato sei sempre più vicino al tuo sogno. Purtroppo oggi trovo che il livello e la qualità del lavoro, quello artigianale ad esempio, come quello del cinema o del mondo della pubblicità da cui provengo, non siano quelli di una volta, trovo che non ci si dedichi più con lo stesso impegno al proprio lavoro e i social poi fanno la loro parte. Mi chiedo quanti film dell’ultimo decennio saranno ricordati?