Un’estate con Sofia, di Rebecca Zlotowski

Due cugine e un’estate a Cannes alla scoperta di loro stesse tra libertà sessuale ed emancipazione. Disponibile su Netflix il film di Rebecca Zlotowski dalla Quinzaine di Cannes 2019

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Planetarium ha portato indietro le lancette fino agli anni ’30, presentando così un’Europa che stava ancora scoprendo il potenziale del mezzo filmico in una magica intesa tra realtà e illusione;  Un’estate con Sofia rispolvera la macchina del tempo per proseguire – in senso strettamente figurato e solo per quanto riguarda il citazionismo – fino agli anni ’60, in un connubio tra realtà e divismo. Sophia Loren, Brigitte Bardot, Monica Vitti, Claudia Cardinale sono le protagoniste fantasma che aleggiano in aria come per riportare in scena ciò che le aveva rese bellissime: il mistero.

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Un’altra storia di donne, ma soprattutto un’altra storia di rapporti umani intensi. Naïma vive a Cannes, e per l’estate viene raggiunta dalla benvoluta cugina, Sofia, trasferitasi ormai a Parigi dopo la prematura morte della madre. Naïma è una ragazza adolescente che ancora sente il bisogno di prendersi del tempo per capire come affrontare le possibilità della vita, sperimentando e soprattutto osservando; Sofia invece si presenta da subito sicura di sé e disinibita, colei che ha già trovato tutte le risposte. Non passa poi tanto prima che la protagonista, da fanciulla ingenua ma considerevolmente intelligente, mostri il suo legame – forse anche morboso – con la cugina, alla quale dedica tutte le sue attenzioni talmente è attratta dal suo stile di vita edonistico e “libero”, non riuscendo a fare a meno di seguirla e ascoltarla fin quasi a vederla come icona da imitare. Il loro percorso di formazione inizia la sera in cui incontrano Philippe e Andrés su una barca di lusso.

La macchina da presa respira, si prende i suoi tempi, inquadra lentamente fino a mostrare ciò che vuole solo quando vuole mostrarlo e solo dopo aver fatto sospirare abbastanza; alimenta il mistero quanto può prima di scoprire le carte in tavola. Primi piani, movimenti di macchina che seguono quelli dei corpi accompagnati da sporadici momenti di profonda riflessione su tematiche ingombranti, dall’emancipazione femminile alla differenze di classe, dedicando attenzione anche alla questione della ricchezza, al concetto di amore, l’idea di bellezza come risorsa e a un esistenzialismo basato su quel preciso momento di vita. L’opera è stratificata e riesce ad unire tutti i suoi temi grazie all’espediente di una narrazione accessibile. Se nella filmografia della regista prima il fulcro era perlopiù lo sviluppo di concetti semplici in storie complesse, ora avviene il contrario.

Rebecca Zlotowski ha lavorato su stereotipi e cliché per liberare il corpo dal pregiudizio e renderlo quello che spesso è: uno strumento di potere – ma lo è pur sempre in un mondo comandato dal denaro, due fazioni che si dominano a vicenda, e forse una più dell’altra. Una donna prosperosa dall’abito succinto ammalia e spaventa perché è più soggetta a giudizio rispetto, ad esempio, a un uomo abbiente che sfoggia le sue ricchezze brindando su uno yatch davanti a persone meno facoltose, approfittandosi degli stessi beni per conquistare la donna e unirsi a lei in un gioco di piacere e scambio materiale per poi liberarsene. Questa favola politica non vuole imporsi con finalità morali, ma sgravare i preconcetti e mostrare gli uomini e le donne – facenti parti di ambienti sociali diversi – per come sono (o possono essere). Sta tutto nel titolo originale, Une fille facile – che va preso alla lettera. Ma un facile che significa semplice, e un semplice che non significa sbagliato. Per Sofia, la facile del titolo, la donna ha la possibilità di ottenere ciò che vuole provocando delle reazioni – il “facendosi sentire” che Philippe suggerisce alla protagonista – e per farlo ci sono più modi: tra questi il corpo, la sessualità, il mistero. Un ritorno alle dive anni ‘50 e ‘60 per ricordare alle donne che non devono necessariamente “virilizzarsi” – a detta della regista – per avere delle possibilità, riportando in auge quello stereotipo di bellezza senza tempo dal carattere schivo e allo stesso tempo affascinante che non rivela mai i suoi segreti. L’altra faccia della medaglia prevede invece che la donna si guadagni la parità con l’uomo quando non si svaluta. Due visioni entrambe limitate, anche nelle migliori delle intenzioni.
Una delle tematiche più interessanti è proprio quella che accenna alla libertà: “Pensi che Sofia sia libera? Anche la libertà può essere un lavoro” viene fatto notare a Naïma da sua madre in riferimento allo stile di vita della cugina, che nonostante la sua indipendenza dalle convenzioni e responsabilità pare sempre stanca. Tra elastici strategici che tirano lo sguardo alla “Sophia Loren” e una finta inconsapevolezza – come quando in una discussione nomina Marguerite Duras, facendo credere di averla citata senza conoscerla davvero – Sofia deve svegliarsi ogni mattina e costruire la sua “libertà”, perché aspirare a ottenere una vita agiata e facile vivendo sé stessa completamente, soddisfacendo il suo piacere carnale e materiale, richiede un sacrificio. Significativa la scena in cui i due ragazzi della spiaggia, straniti dall’emancipazione sessuale di Sofia, preferiscono allontanarsi e scegliere la via dell’insulto.
E Naïma, che osserva, realizza la fragilità insita in questo sistema in cui non si può essere sé stessi o, se lo si è, comunque non si vive veramente liberi. Per tale motivo la ragazza sceglie di seguire un’altra strada per l’emancipazione, facendo cara l’esperienza: lavorare su sé stessa faticando per la sua passione e col suo talento, puntando al non avere padroni e forse essere così finalmente libera.

Titolo originale: Une fille facile
Regia: Rebecca Zlotowski
Interpreti: Zahia Dehar, Mina Farid, Benoît Magimel, Nuno Lopes, Clotilde Courau, Henri-Noël Tabary, Loubna Abidar, Lakdhar Dridi
Origine: Francia, 2019
Distribuzione: Netflix
Durata: 92′

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3 (2 voti)
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