Unicorn Store, di Brie Larson

L’esordio alla regia dell’attrice è la nuova creatura di Netflix, che arriva piena di glitter e arcobaleni in mezzo ad un universo fatto di grigio, distopie e apocalissi tecnologiche

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Esistono gli unicorni? Più che altro, credi che potrebbero esistere? Questo è l’interrogativo dietro l’esordio alla regia di Brie Larson, Unicorn store, nuova creatura di Netflix che arriva piena di glitter e arcobaleni in mezzo ad un universo fatto di grigio, distopie e apocalissi tecnologiche. Stavolta l’attrice premio Oscar – senza perdere l’atteggiamento di strafottente girl next door – è Kit, una ragazza infantile e volatile che dopo aver fallito in ogni tentativo di diventare un’artista torna a casa dei genitori sconfitta e delusa. L’unica chance di sopravvivenza apparente è trovare un lavoro comune, il più grigio e noioso possibile. Anche se lei decide di provarci a lasciarsi dietro il mondo di bambina che fino a quel momento ha insistito nel coltivare, c’è un sogno a cui non è disposta a rinunciare: allevare un unicorno.

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Come una specie di I sogni segreti di Walter Mitty al contrario – che racconta proprio il rischio di rimanere prigionieri in un luogo di fantasia – nel film il tentativo di contrastare il grigio della realtà quotidiana con il potere di sfuggire attraverso l’immaginazione prende un altro significato: questa dimensione felice è stavolta dipinta come una via colorata all’autodistruzione. La negazione dell’eterno bambino come unica salvezza, l’infanzia come un momento che può diventare un posto sospeso e disgraziato, che rallenta lo sviluppo della vita, una rete in cui è molto facile rimanere intrappolati. Un mondo finto fatto di candy e rosa, dove tutti i personaggi sembrano la versione naive di loro stessi; Il Salesman di Samuel L. Jackson – l’uomo che porta l’unicorno e la buona novella – in abito rosa, solare e ottimista, come la nemesi di Elijah Price; l’eterna attrice non protagonista Joan Cusack e Bradley Withford, i genitori di Kit, che fanno parte di un mondo grigio e piatto e parlano dell’età adulta mentre indossano vestiti da boy scout che gli stanno troppo stretti. Loro, come tutti, credono di essere nel posto giusto al mondo, ma sembrano sempre fuori luogo.

Unicorn Store è anche la ricerca di un qualcosa che non esiste, un

film sull’innocenza nel vero senso della parola, anche quella dello spettatore e dell’attore che crede di cambiare pelle e forma quando, in realtà, rappresenta soltanto una variazione dello stesso personaggio. La continuità perpetua del corpo cinematografico che il pubblico reclama e che gli interpreti devono impiegare per poter sopravvivere. Così come Kit, anche Brie Larson è un’attrice che sembra essere sempre sul punto di raggiungere un altro livello ma rimane rinchiusa a metà strada tra i premi, i riflettori e un secondo piano. Una star che, a quanto pare, adesso ha trovato nei blockbuster e nei cinecomic – Captain Marvel e The Avengers – una dimensione sicura. Proprio come il suo personaggio, Kit, che vive in una sorta di infanzia perpetua ma allo stesso tempo è diventata cinica, quasi anestetizzata. Anche quando parla del suo desiderato unicorno, della magia del passato e l’amarezza del presente, delle note stonate della sua vita.

“Cosa vuol dire essere adulto? Sforzarti di farti piacere le cose sgradevoli”. La mamma di Kit tenta di spiegare a sua figlia che il mondo reale non è di colore rosa. Ma a quel punto, il racconto ci ha lasciato un’altra domanda: si tratta di un film sulla magia dell’infanzia, oppure di un film infantile? Forse la vera innocenza si trova nel credere ancora che il contrasto tra colore e grigio sia una invenzione, che questo confronto abbia qualcosa di nuovo da dire. Credere che il cinema possa risolvere tutto soltanto con colori e magia, anche quando non c’è sostanza.

Alla fine, il vero rischio il film lo prende quando si allontana dall’arcobaleno e dall’assurdo, fa autocritica e prende la strada dei mattoni gialli che lo porta pericolosamente a trovare la morale della favola. 

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