(Unknown Pleasures) Jackie & Ryan, di Ami Canaan Mann

Raccontare la sublime levità di un singolo momento, di una stasi silenziosa, di una sola fugace nota nell’intero spartito di una vita…straordinaria terza regia di Ami Canaan Mann.

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Raccontare la sublime levità di un singolo momento, di una stasi silenziosa, di una sola fugace nota nell’intero spartito di una vita…ma che significhi tutto, che resista al tempo, diventando un’irrinunciabile memoria emotiva da custodire gelosamente. Un’esperienza comune, che tutti abbiamo vissuto in varie forme e che vorremmo ri-vivere sempre nel cinema. Straordinaria terza regia di Ami Canaan Mann. La giovane figlia di cotanto padre, dopo l’incubo noir di Texas Killing Fields, continua il suo personalissimo viaggio nella periferia americana spostandosi questa volta negli immensi paesaggi innevati dello Utah e inquadrandoli con campi lunghissimi che respirano cinema-classico. L’America (è) in quelle immagini. Immagini che raccontano una storia piccola-piccola, il breve incontro tra Jackie (una giovane madre in procinto di divorziare, che in passato inseguiva il sogno della musica) e Ryan (un cantante folk che vaga in treno verso la Frontiera, zaino e banjo in spalla, cantando la sua libertà senza fissa dimora). E poi le loro confessioni reciproche, il loro lento e discreto avvicinarsi: una pausa nelle loro vite appunto, una parentesi che li astrae dal tempo e che la regista è lì prontissima a cogliere.

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Ecco: se c’è una cosa che accomuna la figlia Ami al padre Michael è quella miracolosa abilità nel restituire l’urgenza di un sentimento tutto presente azzerando ogni “costruzione” scenica e inabissando lo sguardo dello spettatore: un sobbalzo della macchina da presa, il sonoro che si soggettivizza e ritaglia un primo piano nello spazio, occhi negli occhi tra Jackie e Ryan e il cinema pulsa in quegli interstizi. Ryan si tratterrà nella cittadina solo il tempo di riaggiustare il tetto della vecchia casa, il tempo di comporre una canzone (scritta dalla stessa regista…) e sentir Jackie cantare. Nel frattempo si avvertono nitidi gli echi di intere stagioni di cinema americano: dai classici fordiani anni ’30 dell’era roosveltiana (che inaugurarono la figura dell’Hobo, il nomade che si sposta clandestinamente sui treni merci, allora come oggi spinto dalla dura crisi economica), ai melodrammi anni ’50 degli amori impossibili (da Sirk a Stevens), sino ad arrivare ai road movie anni ’70 (di Ashby e Demme in particolare). Ma il tutto è distillato in una storia straordinariamente contemporanea che limita (o innalza?) le proprie ambizioni solo al romantico sfiorarsi tra due ordinary people, ai loro silenzi persi nella contemplazione del paesaggio, al loro amore fugacissimo e non necessariamente “risolto” che sopravvivrà come un eco. Anche fuori dalla sala. Ami Mann ci regala un film inconsapevolmente rohmeriano e inspiegabilmente intimo, come un semplice abbraccio tra due persone che schiude improvvisamente il cinema. O forse, la vita.

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