(unknown pleasures) – The Jericho Mile, di Michael Mann

In The Jericho Mile c’è già tutto il cinema di Michael Mann in questa escalation alla Peckinpah che suggella la corsa disperata verso Olimpiadi impossibili.

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Considerando il “passato” di moltissimi suoi futuri protagonisti, il primo lungometraggio di Michael Mann non poteva che essere ambientato in un carcere. A Folsom, ovviamente, lo stesso che ricorda Neal/De Niro in Heat. Il carcere è figura ricorrente nel cinema di Mann, luogo mentale e (meta)fisico da cui evadere per ristabilire le coordinate di un mondo ideale perennemente sognato, come nello struggente collage naif composto da Jimmy Caan in Strade violente. Ma è da qui che inizia tutto: film televisivo questo Jericho Mile, esordio nel lungometraggio per un 36enne regista americano reduce da varie esperienze in Europa. Un esordio che avviene simbolicamente nel 1979, ossia alla fine di quel decennio d’oro del cinema americano che proprio Mann saprà introiettare e ri-pensare nella sua folgorante ricerca estetica che ancora oggi sbalordisce.

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E allora: “Rain” Murphy corre e basta. L’ergastolano protagonista di Jericho Mile reagisce all’imposta stasi del carcere con una corsa ossessiva, muta, fine a se stessa e senza centro. Murphy corre in silenzio, gira in tondo, mentre in montaggio alternato la stasi del carcere genera perturbanti pulsioni (traffici, violenze, prepotenze muscolari). L’uomo-in-movimento diventa lo schermo su cui ogni sguardo si concentra, un automa spirituale che crea onde concentriche in uno stagno immobile. Murphy è cinema che erompe dalla musica degli Stones (Sympathy for the Devil) e ci fa identificare nel suo movimento senza scopo, mentre Folsom diventa il microcosmo iperrealista all american dove tutte le tensioni sociali e razziali esplodono. Gang di bianchi, neri, ispanici, si contendono il territorio e i traffici, mentre Rain continua a correre…

La macchina da presa di Mann fluttua tra le celle disordinate e il cortile ribollente, tra gli attori (come non ricordare il magnifico Brian Dennehy?) e i veri detenuti prestatisi per le riprese, creando con lo stile quell’immersività percettiva che solo il digitale gli consentirà di trovare molto tempo dopo. Rain corre ancora, ma dal destino non si sfugge: il suo caro amico Stiles si mette nei guai, fa uno sgarro e viene ucciso. A Murphy si chiede allora di tornare a dare scopo al suo movimento, scendere a patti con i propri principi per qualcosa di ancora più grande e prezioso: la lealtà e l’amicizia. C’è già tutto il cinema di Mann in questa escalation alla Peckinpah che suggella la corsa disperata verso un Olimpiade impossibile. Perché gli occhi di Rain Murphy, in fondo, non sono poi tanto diversi da quelli del Chris Hemsworth di Blackhat (“parli come se stessi sempre in carcere” viene rimproverato anche all’ultimo “corridore” manniano…), in un cinema che insegue da sempre la sublime sopravvivenza dell’umano più umano oltre ogni prigione fisica, sociale, culturale e tecnologica. Michael Mann è uno dei più grandi cineasti di ogni tempo e il suo Rain Murphy non ha ancora smesso di correre…


Titolo originale: id.
Regia: Michael Mann
Interpreti: Peter Strauss, Brian Dennehy, Richard Lawson, Roger E. Mosley, Geoffrey Lewis
Durata: 97′
Origine: USA, 1979
Genere: drammatico

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4.5 (2 voti)
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