(unknown pleasures) Jia Zhang-ke. A Guy From Fenyang, di Walter Salles

Il “ragazzo” che dà il titolo al film è la giusta definizione di un cinema formidabile proprio per la sua verginità espressiva. Quelli di Zhangke sono gli occhi di un fanciullo

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Walter Salles rimane in fuori campo e filma Jia Zhangke per le strade di Fenyang. Lo pedina mentre ripercorre fabbricati, marciapiedi e vicoli del quartiere in cui è cresciuto (“Hanno tolto tutti i karaoke” dice indicando dei negozi abbandonati). Sin dalla prima sequenza il grande regista cinese attraversa uno spazio intimo e allo stesso tempo caoticamente impersonale. La Cina che ricorda nella sua infanzia non è più quella di oggi. Ci sono le trasformazioni architettoniche, sociali e umane che contraddistinguono le sue opere, così frequentemente vessate dalla censura governativa. Per Zhangke attraversare il paesaggio e lo spazio significa in primo luogo testimoniare. Rappresentare il cambiamento in presa diretta di un mondo velocemente lanciato da una dimensione arcaica verso una modernità esplosiva. “Per me è impossibile cambiare le cose. L’unica cosa che posso fare è registrare i mutamenti” confessa davanti alla macchina da presa del collega brasiliano, che qui firma probabilmente il suo lavoro più riuscito. In Un gars de Fenyang emerge immediatamente un personaggio visceralmente legato ai suoi ricordi personali e al contatto visivo e tattile con la sua terra. Il “ragazzo” che dà il titolo al film è la giusta definizione di un cinema formidabile proprio per la sua verginità espressiva. Quelli di Zhangke sono gli occhi di un fanciullo che genera immagini come se fossero le prime e le ultime della terra. Il discorso è innanzitutto estetico e viene coadiuvato dagli interventi del tecnico del suono di Still Life e del grande direttore della fotografia Yu Lik Wai.

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jiaEmergono così frammenti illuminanti da Still Life, 24 City e da Unknown Pleasures, il cui lunghissimo piano sequenza della moto inceppata assume i contorni di esperienza epifanica, primo tassello di un’opera finalizzata alla verità e alla contemplazione di una vitalità tutta dentro l’atto del filmare. Fin qui il ritratto di un cineasta del nostro tempo che Salles dipinge come fosse un racconto di formazione su cui proiettare il mondo privato e pubblico della Cina contemporanea. Ed è qui che emerge anche il cuore dell’operazione, la componente biografica che assegna a Zhangke il ruolo doloroso di figlio-testimone da perseguitare e da ripudiare. Il ragazzo Zhangke incontra amici, parenti, collaboratori, dichiarando di essere il figlio più autentico e indispensabile della sua terra. Eppure i suoi film non vengono visti in sala, intralciati da una burocrazia antiquata (impossibile impedire la fruizione delle sue opere nei tempi di internet sottolinea giustamente il regista) ma simbolicamente terribile per il più amorevole dei figli. Emergono così alcune confessioni struggenti inerenti il passato della famiglia, penalizzata dalla Rivoluzione culturale del 1949, e il ruolo assunto dalla figura paterna, venuta a mancare nel 2006, e ricordata con una commozione che affonda nel rimpianto per quello che non è stato possibile condividere e comunicare. “Mio padre si preoccupava tanto per me” confessa Jia in lacrime dopo aver raccontato cosa gli disse al termine della visione di Platform: “Se tu lo avessi fatto durante la Rivoluzione ti avrebbero catalogato come esponente di destra e ti avrebbero messo in prigione”.  Un po’ alla volta il documentario diventa parabola su un rapporto amoroso non corrisposto tra la Cina e il cineasta. Il tocco del peccato è il capolavoro censurato che mette in crisi la passione per le immagini. Jia sembra cedere alla sconfitta e si lascia sfuggire di voler smettere di filmare.  Fin quando si ritorna a Platform, che racconta la sua generazione dal ’79 all’ ’89, e all’idea di un sequel con gli stessi protagonisti vent’anni dopo. Con un po’ di lungimiranza il “ragazzo” continuerà a fare cinema. Ma è un racconto tragico e crudele, esemplare nel raccontare uno scollamento culturale tra padri e figli, che nel caso di Jia è faticosissimo ma, forse, già diventato storia del cinema.

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