(unknown pleasures) L’homme qu’on aimait trop, di André Téchiné

Téchiné riprende il fatto noto di cronaca e lo declina con sublime maestria negli umori e nei colori del suo cinema, facendolo deragliare verso un solare e tragico melodramma

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Dopo la Venezia rosso sangue del bellissimo Impardonnables, il vecchio leone André Téchiné si sposta in Costa Azzurra, a Nizza, per una nuova tappa del suo noir sentimentale. Ispirandosi a un famoso fatto di cronaca degli anni 70, l’affaire Agnès Le Roux: la sparizione misteriosa di una giovane donna dell’alta borghesia (interpretata da Adèle Haenel), figlia della proprietaria di un Casinò (Catherine Deneuve) con cui aveva un difficile rapporto (personale e d’affari, nella gestione del casinò) e follemente innamorata dell’arrivista avvocato di sua madre Maurice (Guillaume Canet) con cui inizia una passionale relazione sino alla misteriosa scomparsa. Lui sarà il primo sospettato, ma a tutt’oggi non ci sono verità definitive su questo caso…

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Téchiné riprende il fatto noto e lo declina con sublime maestria negli umori e nei colori del suo cinema. Tutta la prima parte del suo L’homme qu’on aimait trop configura la lenta e meticolosa strutturazione di un mondo, l’alta finanza di Nizza, con il corpo statuario della Deneuve (ormai pura storia del cinema in esposizione) a fare da ape regina di questo ristretto alveare sociale che oscilla tra cortesia formale e arrivismo spietato. In questo universo chiuso (letteralmente, nelle segrete stanze) piomba l’età acerba della figlia Agnès, dopo un lungo periodo in Africa, segnando un forte scarto da sua madre. Maurice è l’emersione del loro lato oscuro: colui che disegna le trame malavitose per la gestione del casinò e che scava il solco incolmabile tra le due donne. La relazione che nasce, impetuosa, tra Maurice e Agnès fa detonare quel mondo sclerotizzato (bellissimo il ballo etnico che improvvisa la ragazza, sensuale e carnale, rompendo gli indugi) con tutta la perturbante pericolosità delle pulsioni arcaiche ormai liberate.

Téchiné, insomma, ingrippa costantemente il suo meccanismo perfetto – in maniera meno manifesta, certamente più senile, ma in fondo non lontana dal magnifico La Chambre Bleu di Amalric – e lo fa deragliare verso un solare e tragico melodramma: il film si apre, confonde i piani e gli sguardi, respira inseguendo il corpo di Agnès. Un cinema che pur nel controllo totale della forma riesce ancora a sorprendere con piccole parentesi di umanità pulsante (un “inutile” e lungo carrello a seguire il figlioletto di Maurice, che poi non vedremo più, ma che caratterizza in pochi secondi un personaggio) o ronde improvvise verso i bei tempi nouvelle vague (le lettere scritte e recitate in primo piano da Agnès, una calda eredità truffauttiana). Sino a quando il nero ricompare, Agnès minaccia il suicidio, viene risucchiata nel nulla portandosi dietro il sole (il 2005, “trent’anni dopo”, sarà un funereo museo delle cere che la ricorderà come la luce). Un cinema, quello di Téchiné, che trasuda ancora sangue e vita.

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