(unknown pleasures) Little Feet, di Alexandre Rockwell

Gli ultimi guerriglieri dell’esercito degli indipendenti USA sembrano raccontare che quando qualcuno muore (il cinema?) le proprie particelle possano appunto andarsene in giro tra le immagini

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Quando morirò le mie particelle se ne andranno in giro. Magari serviranno per fare un tavolo, una statua, un gatto”, diceva Margherita Hack prima di andarsene. Gli ultimi guerriglieri dell’esercito degli indipendenti USA (pensiamo anche agli ultimi film di Amos Poe o Alex Cox…) sembrano starci raccontando con i loro lavori di oggi che quando qualcuno muore (ad esempio, il cinema?) le proprie particelle possano appunto andarsene in giro tra le immagini, gli oggetti, le cose che restano. E’ così che Alexandre Rockwell torna alla regia con questa sua sorta di versione da Piccole Canaglie della Schiuma dei giorni gondryana, pensata e realizzata insieme ai due figli come quando Coppola scriveva Life without Zoe insieme a Sofia, allora bambina. In un bianco e nero sgranato che da solo racconta tutto un modo mitologico di fare cinema (tant’è che non è difficile correre col pensiero anche a Amir Naderi, ai suoi Marathon e Sound Barrier, ques’ultimo soprattutto), Rockwell racconta l’epica impresa dei fratellini protagonisti e di un paio di amichetti incontrati lungo l’odissea che attraversano la metropoli per donare al mare il pesciolino sino ad allora tenuto in una boccia di vetro. Ma chi va liberato realmente è il fantasma, leggero e candido come una piuma, della madre defunta da poco, luce che accompagna tutta l’avventura lunga un giorno illuminando a colori i ricordi, i sogni, le fantasie di questi due figli rimasti soli con un padre distrutto dalla vita e dal dolore, che campa come mascotte in un buffo costume da animale.

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Va da sé, sono queste le particelle che se ne vanno in giro per tutto il film trasformando “un tavolo, una statua, un gatto” istantaneamente in cinema stralunato e trasognato, quel cinema con la coda dell’occhio che vive negli scarti, nelle cose da buttare, nei residui di una metropoli, di una casa, di una famiglia: home movie, certo, oramai come forma di resistenza, se proprio rosselliniano non tanto nel neorealismo quanto magari il Rossellini surrealista di “Fantasia sottomarina” che fa capolino nello struggente, potentissimo, irresistibile finale in spiaggia.
Con un lavoro sopraffino sul sonoro e la soundtrack esaltante fatta di rumori metropolitani e frammenti di voci e suoni di bambini, Rockwell assimila così l’infanzia a una comica con movenze, ritmi e gag degne dell’epoca del muto, ed è come se ci suggerisse di guardare alla storia del cinema come all’immenso filmino famigliare dell’intera vita di un fantasma, che da piccolo è stato Laurel & Hardy e poi è morto centenario in un minuscolo acquario, per spargere le proprie ceneri su ogni cosa che forma questo mondo e che ci può capitare di vedere davanti agli occhi, e così restare per sempre tra di noi.

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