(unknown pleasures) "Machine Gun Preacher", di Marc Forster
Il Childers di Butler funziona forse proprio in quanto troppo umano e troppo finto, ginnastica facciale virata allo scatto ringhioso, come una smorfia permanente, indocile presenza, figura (ri)costruita più che un vero e proprio personaggio. Perché, alla fine, Machine Gun Preacher sa essere davvero un film su Sam che salvò i bambini combattendo i cattivi
E Machine Gun Preacher, in questo insieme, rappresenta una creatura particolare e pressoché insolita, per quanto controversa. Viene dopo Quantum of Solace e prima di World War Z. Sta in una sorta di terra di mezzo, come una (curiosa) parentesi, come collocato al posto più giusto e in un certo senso naturale. Si situa, ovvero, fra la migliore regia di Forster – con uno 007 più introspettivo e oscuro, sulla scia di Casino Royale di Martin Campbell – e il suo film politicamente, pericolosamente, più ambiguo, horror pandemico dalla lavorazione tormentata e scadente nell’esito, senza cuore (ma qui ci può stare, non è certo una priorità) né testa (e questo è grave), assai lontano, per intenderci, dalla consapevolezza di un Contagion soderberghiano.
La storia è quella di Sam Childers, personaggio realmente esistente (interpretato da Gerard Butler), ex criminale tossicodipendente della Pennsylvania con moglie (Michelle Monaghan) e figlia, trasformatosi, negli anni Novanta, in lavoratore serio e fervente cristiano, tanto da decidere di partire per una breve incursione in una fetta di Africa dilaniata dalla guerra civile, fra Uganda settentrionale e Sudan meridionale, nella speranza di apportare un minimo d’aiuto a sfollati e vittime. I massacri perpetuati delle milizie capeggiate da Joseph Kony ai danni della popolazione inerme, però, lo indurranno a voler fare di più, anche a costo di trascurare la famiglia, fino a salvare e ad assistere centinaia di bambini e a contrastare il nemico con le armi…
Un biopic, storia vera eppure perfettamente “americana”, di quelle, cioè, Bigger Than Life, al contempo, però, Stranger Than Fiction (che è il titolo originale di Vero come la finzione), edificante ma non troppo, tema muscolare a svolgimento semi-pauperistico, oggetto stridente, strana convivenza di dramma e azione, redenzione e violenza, individualismo a stelle e strisce e controllata inclinazione al mood epico. Regia pragmatica e funzionale, stile assoggettato alla sostanza, fra un’America provinciale e cristiana dal volto umano – distante da quella orrenda e ridicola setacciata da Larry Charles nei film su misura per Sacha Baron Cohen e Bill Maher – e un’Africa di sole e notturna con i suoi conflitti, pensata e modulata per certi versi su convenzioni e stilemi di racconto western. Perché Childers, in realtà, è molto più preacher, predicatore, in patria che in terra d’altri.
Insomma − dopo Daniel Craig e l’“umanizzazione del mito” James Bond, prima del piatto eroe americano interpretato da Brad Pitt, marito e padre perfetto, alle prese con gli zombie che infestano il pianeta −, ecco l’hero ordinario e “bifolco” di Gerard Butler, controverso, irrisolto in partenza e anche dopo, perché, come scrive Kirk Honeycutt su «The Hollywood Reporter», “The film doesn't explore all those ‘whys’ and ‘whats’”. Ridotte allo stretto indispensabile le motivazioni (anche psicologiche) e le connessioni narrative, scarnificate le coordinate storico-politiche. Eppure il film resta lì, rimane autonomo, si basta, probabilmente perché altro non vuole e non può essere. Il Childers di Butler funziona forse proprio in quanto troppo umano e troppo finto, ginnastica facciale virata allo scatto ringhioso, come una smorfia permanente, indocile presenza, figura (ri)costruita più che un vero e proprio personaggio, acting in messa in forma di un corpo (ricordate lo stesso corpo, ma diverso, e in chroma key, in quella cosa lontanissima dalla pellicola di Forster che è 300 di Zack Snyder?). Qui c’è tutto. Perché, alla fine, Machine Gun Preacher sa essere davvero un film su Sam che salvò (e continua a salvare) i bambini combattendo i cattivi.