(unknown pleasures) Maïdan, di Sergei Loznitsa

Dopo le deviazioni narrative di My Joy e In the Fog, Loznitsa torna alla vocazione del documentario. Si tratta di un viaggio nel cuore geopolitico degli ultimi mesi, l’Ucraina e i suoi rivolgimenti

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Dopo le deviazioni narrative di My Joy e In the Fog, Loznitsa torna alla vocazione del documentario. Anche se stavolta si tratta di tutt’altra sfida, quella di filmare la Storia nel suo farsi, accettando tutti gli imprevisti del caso, l’impossibilità di una programmazione, di una traccia di costruzione narrativa, se non irrimediabilmente a posteriori, a conti fatti. Si tratta di un viaggio nel cuore geopolitico degli ultimi mesi, l’Ucraina, con i suoi rivolgimenti difficili e precari.

Loznista arriva a Kiev a metà dicembre, più o meno agli inizi delle manifestazioni di protesta contro il regime di Janukovi?. L’atmosfera è di estrema fiducia ed entusiasmo. È quasi una festa, tra canti, balli e improvvisate cucine mobili. Persino un canto di bambini sale dal palco, a dimostrare come siano proprio tutti in strada. Maïdan è la piazza principale della città ed è lì che Loznitsa si posiziona come osservatore neutro, imparziale. Lunghe riprese immobili, che cercano di stare nel cuore degli avvenimenti, di abbracciare quante più persone possibili, stipandole in un’inquadratura massa senza centro né fuoco, mentre si elevano potenti le parole dell’inno nazionale. “Daremo la nostra anima e i nostri corpi per la nostra libertà e proveremo, fratelli, che siamo della stirpe dei cosacchi. Gloria all’Ucraina! Gloria agli eroi!”.

Il montaggio non separa né connette. Funziona semplicemente come congiunzione temporale tra un momento e un altro di questo storico percorso di lotta. Del resto Loznitsa sa perfettamente che non c’è bisogno di utilizzare nessuno strumento, nessun codice per raccontare e accrescere la tensione ideale e drammatica degli avvenimenti. Basta ciò che accade davanti agli occhi della macchina. Perciò cerca di mantenere la distanza anche quando la situazione si fa più pericolosa, quando la polizia risponde con la forza alle proteste e lo scontro si accende fino a sfociare nell’aperta guerriglia. Ma quando arrivano gli spari, l’operatore è costretto a scappare e, per una volta, l’immagine si scompone in un movimento incontrollato. Siamo davvero agli antipodi dell’ingannevole ripresa di repertorio che apre The Search di Hazanavicius, quel tentativo, ai limiti dell’abiezione, di riflettere sullo statuto di verità dell’immagine. Loznitsa non ne ha bisogno. Gli basta quell’unico movimento “davvero” necessario del corpo, degli occhi, della paura. Il cinema diventa, straordinariamente, una reazione naturale, una risposta possibile al turbine degli eventi, all’irruzione della violenza. Alla fine, quando Janukovi? fugge da Kiev a febbraio, i morti tra i manifestanti sono un centinaio. Un prezzo alto. Che però non ha mai soffocato il grido della piazza. Gloria agli eroi!

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