(unknown pleasures) – "Shotgun Stories", di Jeff Nichols

shotgun stories
Nella diramazione genealogica da Malick a Green a Nichols scopriamo la “specificità artistica” del nostro, che nel giro di appena cinque anni arriva ad essere considerato uno dei punti di riferimento della produzione statunitense: il filmare la propria gente, la propria casa, la propria terra, il racchiudere in uno sguardo-abbraccio le storie e le immagini del Sud

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Si, Malick è il regista che si è laureato ad Harvard, ha tradotto “Dell’essenza del fondamento” di Heidegger e ha scritto per “Life”; ma è anche il regista che è nato a Waco, ha lavorato in una compagnia petrolifera e ha scritto I fratelli Dion di Jack Starrett. Dei fossati temporali – gli anni ’50 – e spaziali – le praterie, le badlands – scavati e mantenuti in quaranta anni e sei film, il Diavolo, i treni, la Grazia, la Grande Depressione, che ne fanno, intimamente e definitivamente, un southern director. Tale è la consapevolezza di questa posizione geografica e ideale, che Malick nel corso degli anni ha prodotto lavori che vivono e muoiono a quelle latitudini, The Beautiful Country, The Unforeseen, Red Wing, The Better Angels. Con, in cima, e a coronamento del sogno personale e cinefilo di una vita di David Gordon Green, Undertow. Il cerchio si chiude e si apre ad altre triangolazioni, tangenti, con Green, da Little Rock, Arkansas, che produce e segue tutto il percorso filmico di Jeff Nichols, da Little Rock, Arkansas, che ha già spazzato via diversi premi in tutti i festival del mondo con appena tre titoli, Shotgun Stories (2007), Take Shelter (2011), Mud (2012).

Nella diramazione genealogica da Malick a Green a Nichols scopriamo la “specificità artistica” del nostro, che nel giro di appena cinque anni arriva ad essere considerato uno dei punti di riferimento della produzione statunitense: il filmare la propria gente, la propria casa, la propria terra, il racchiudere in uno sguardo-abbraccio le storie e le immagini del Sud, andare e tornare, ancora e ancora, in questi fiumi, autostrade, desolazioni. E’ una direzione vitale che si fa progetto artistico inseguito e costruito negli anni fin nei minimi dettagli, anche e soprattutto con la presentificazione, la recitazione, di Michael Shannon, da Lexington, Kentucky, verticalità componibile che dal dittico herzogiano (Il cattivo tenente – Ultima chiamata New Orleans, My Son, My Son, What Have Ye Done) e dal “pattern” nicholsiano è sbarcato ora alle grandi produzioni (L’uomo d’acciaio, Boardwalk Empire). Nichols e Shannon, assieme, che mostrano e impersonificano sempre lo stesso motore immobile, un uomo – degli uomini, con il Matthew McConaughey di Mud, da Longview, Texas – che è violento e quindi fragile, silenzioso e sorridente, solitario e protettore degli amici, della famiglia. Che vive dentro i gesti e la prossemica codificata, altera, imposta dalla società in cui è calato, dalla quale sarà inevitabilmente schiacciato, sia che cerchi di uniformarsi ad essa – la routine di Take Shelter –, che di abbandonarla – la fuga di Mud –, che, allo stesso tempo, di seguirla e affrancarsene – questo Shotgun Stories.

Son, Boy e Kid sono i figli abbandonati dall’ubriacone e violento padre; Cleaman, Mark, Stephen e John sono i figli frutto del suo secondo matrimonio. Alla morte del patriarca, i primi tre irrompono al funerale e profanano la cerimonia di sepoltura. La faida tra i clan è iniziata.

Nichols per questo suo esordio produce una sfilata, una duplicazione di quadri che invariabilmente sono fissi o in camera car, a mostrare a noi spettatori estranei, barbari del Nord o di chissà che altro luogo, dei binari che finiscono nell’erba o il retro di edifici diroccati. Solo questo. Delle parti che non inframmezzano i dialoghi tra i tre fratelli o gli agguati e le morti, ma ne sono il sostrato lungo il quale questi possono dimenarsi, di più, lo scontro tra i due clan è soltanto il correlativo oggettivo del paesaggio che torna sempre più volte a riprendere il centro dello schermo. Nichols lo sa, lo sente, lo scrive, lo gira, con costruzioni simboliche nette e finite – Boy che vive nel camper, Kid che dorme nella tenda, Shampoo che cerca un posto dove stare, gli altri fratelli Hayes sempre alle prese con lo stesso trattore –, con dissolvenze non sul nero ma sull’orizzonte al tramonto. Un distillato che immerge nella dilatazione e nell’immobilità temporale, con interi momenti che si espandono, dilagano, in eventi e situazioni successivi, donando a Shotgun Stories, nonostante i soli ottantasei minuti di lunghezza, una durata arrativa” e “visiva” che va molto oltre.

Come nei successivi due film, Nichols sospende o accelera la materia, plasmando un respiro sulla distanza, un’architettura da romanzo. Così molte cose a prima vista sfuggenti o stridenti vanno con lento fluire al loro posto, e si aprono squarci prima impensabili, sulle donne, sul lavoro – "Women & Work", l’ultimo album dei Lucero, la band capitanata da Ben Nichols, il fratello del regista che ha firmato gli score di tutti i suoi film, perché, come scrive lo stesso gruppo, “Women & Work is a love letter from Lucero to its hometown, Memphis, Tennessee”. Non passive o insignificanti, le figure femminili sono in realtà il centro di gravità nascosto dell’equilibro personale e totale dei personaggi e delle vicende. Ognuna di loro, anzi, è presa nel momento di massima consapevolezza, l’abbandono di quegli uomini e quella terra, per poter finalmente vivere. Un rigurgito di razionalità che rifluisce verso chi resta indietro, e così Son abbandonerà il suo intento omicida – come Curtis in Take Shelter vincerà (?) la fobia, e l’omonimo Mud lascerà quella vita. Il lavoro, invece, è il movimento necessario ai personaggi per vivere e per cui vivono, al centro di tutto anche per Nichols, uno degli ultimi scrittori/registi americani che mettono in scena vere occupazioni e vere vicende legate a queste condizioni. In Shotgun Stories un minimo gradino di classe differenzia i due clan Hayes, con i primi destinati a reiterare giorno dopo giorno o il loro contratto – Son che continua a lavorare anche dopo la morte del fratello – o la loro estraneità al sistema – Boy che vive alla giornata, alla stagione –, sempre sul baratro di nuovi problemi economici – Son e il gioco d’azzardo, Kid e il matrimonio.

Tutto inizia e finisce qui: You raised us to hate those boys, and we do, and now it's come to this. Niente altro, nessuno spazio. Odio e dolore che affondano nel passato, nella Storia, nella Società. Talmente vecchi e misteriosi da divenire profezie e mantra. Parole, gesti, che vengono da lontano e che basterebbe poco a farli tornare laggiù. Un poco che è molto. Ma a volte, succede che vada così. Che le parole dette rimangono lì, e allora tutto cambia, tutto è altro. Come in queste shotgun stories: sangue e lacrime, ma niente fucili. Solo una chitarra nel giardino sul retro, e delle parole: “I feel the cold ground underneath my boots/For no good reason it reminds me of you/Never made good, though I tried and I tried/So I turn back around…/And I walk inside". Hold me close.

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