(unknown pleasures) The Millennial Rapture, di Koji Wakamatsu

La grandezza unica di Wakamatsu sta nella capacità di discriminare, nel riconoscere nei suoi giovani morenti una differenza ribelle, uno scarto passionale sconosciuto ai più

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È definitivo. C’era già il sospetto che per Wakamatsu la Storia fosse una realtà impossibile, una spirale avvitata. Ma ormai è proprio il tempo a mancare, come se fosse arrivato al suo punto limite. In definitiva, che anni racconta questo The Millennial Rapture? Tutto sembrerebbe far pensare al passato, non troppo remoto forse, ma comunque passato. Gli abiti, i modi, i silenzi. Ma, poi, arrivano le antenne sui tetti, corrimani di ferro, le impalcature, le canaline di plastica, le luci dal neon. Fino a un furgoncino Suzuki che buca, con i suoi fari, il buio della notte. Il tempo è passato, ma come per scherzo. Minuti, anni, decenni scorsi in un battito di ciglia, senza dare nell’occhio. Un intero millennio, forse, proiettato sullo sfondo di un paesaggio immobile, condensato, annullato, annichilito in 118 minuti di film, abitato sempre dagli stessi personaggi, dagli stessi occhi.

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Forever young, i giovani di Wakamatsu sono belli e forti, ma sono condannati a morire senza invecchiare. E i vecchi non riescono a vivere né a morire, si aggrappano al passato. Abitano ancora questa prigione del mondo, si affacciano da una foto. Foto, dannazione. Pictures of Adolf Again, cantava Jim O’Rourke in United Red Army (da Bill Fay). È tutto in quell’again. Di nuovo. O forse, mai nulla di nuovo. La storia non cambia e non insegna. È sempre la stessa. Non a caso la vicenda dei Nakamoto, la condannata del destino di Hanzo, Miyoshi e Tatsuo, giunge a noi attraverso un racconto, il ricordo morente di Oryu. È già mito, oltre le linee e le direzioni.

2Rinchiusi in questo punto, gli uomini non hanno gioco né scelta. Sono stretti in una morsa senza via di uscita. Provano a cogliere l’estasi dell’attimo. Hanzo con il sesso, Miyoshi con le droghe e i furti. Ma è solo una vanità. Nella prigione in cui si dibattono, persino le dinamiche del desiderio rispondono a una logica meccanica. Nel sesso, infine, non c’è più passione, calore, sensualità. È una penetrazione monotona, ripetitiva fino alla stanchezza, alla noia, alla morte.

L’assurdità della vita sino alla morte è uno dei temi inevitabili del mio cinema, confessa Wakamatsu. E con i suoi occhi attraversa quel vicolo ‘cieco’ da cui tutti sognano di stare alla larga, quello spazio assurdo di attese, ripetizioni e disillusioni. Non c’è più, a questo punto, in questo punto del tempo, nemmeno la possibilità di incidere, di modificare l’asse di sospensione del mondo. Quell’evento immaginato in 11/25 The Day Mishima Chose His Own Fate come un taglio nelle viscere, si rimargina nell’indifferenza sconcertante delle cose. I bambini continuano a nascere per continuare a morire, come il figlio di Oryu, fotografia che non parla, a differenza di quella del padre.

Assopito in una distanza ironica, The Millennial Rapture è solo all’apparenza più freddo rispetto ai film precedenti. Come se il fuoco, quella rabbia devastante che animava il cinema di Wakamatsu, si fosse in qualche modo acquietata nel lucido sguardo di una vecchiaia saggia. Ma in realtà, il dolore, la disperazione, la compassione riappaiono ancora in fiammate improvvise, tanto intense da raggelare.

In verità, nel cogliere la sostanza e la forma della nostra impasse, Wakamatsu è stato uno dei registi definitivi, al fianco di Hong Sang-soo, Johnnie To. E la sua grandezza unica sta nella capacità di discriminare, nel riconoscere nei suoi giovani morenti una differenza ribelle, uno scarto passionale sconosciuto ai più, gli estremi di un gesto di bellezza capace di esprimere l’illusione di un’apertura, di uno squarcio temporale. Siamo condannati a morte. Proprio per questo, Wakamatsu ci esorta: fate ciò che volete, dite ciò che pensate. La sua crudeltà ultima sta nel richiamarci al dovere di una libertà impossibile, bellissima.

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