(unknown pleasures) The Postman’s White Nights, di Andrei Konchalovsky

Il postino di Konchalovsky è l’ultimo stalker di una capsula lunare, dove gli echi del mondo civilizzato funzionano come violente allucinazioni che definiscono uno scarto definitivo

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Il pannello iniziale recita che il film è stato interamente girato nella zona boschiva e periferica del lago Kenozero, avvalendosi delle interpretazioni degli abitanti del villaggio, attori non professionisti. Dichiarazione programmatica di metodo, che rimanda immediatamente all’intenzionalità produttiva di un cinema fuori dal tempo, molto anni ’60, molto europeo. Del resto che sia il passato a rappresentare un termine di paragone di questo prezioso ritorno alla regia del russo Andrei Konchalovsky – cineasta eclettico, discontinuo ma importante soprattutto perché capace da solo di resistere dentro e fuori il Sistema delineando la sua opera a cavallo dei due mondi (URSS, Hollywwood e poi il ritorno in madrepatria) – ce lo dicono già i titoli di coda con il protagonista che espone direttamente alla macchina da presa alcune foto dei tempi andati. Il legame con il passato scandisce un termine di paragone quasi invisibile ma riccorrente nei pezzi di vita che vediamo scorrere sullo schermo. Non c’è solo Aleksei, il postino che attraversa il lago con il suo motoscafo per mantenere le comunicazioni e fornire i beni di prima necessità agli abitanti di Kenozero. Abbiamo l’anziano ubriacone che sembra uno scheletro allucinato senza memoria, il pescatore che non fa altro che ricordare gli anni in cui (da soldato?) viveva e lavorava in Vietnam, la compagna che ricorda di quando ventenne vide al cinema Un uomo una donna. E c’è Irina, la madre del piccolo Timur, una ex compagna classe di cui Aleksei è segretamente innamorato e sulla quale Konchalovsky costruisce appena velatamente la bozza di un impossibile melodramma vestito di solitudine.

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Il rapporto con la memoria assume i contorni alienanti di una separazione traumatica. Il postino di Konchalovsky è l’ultimo stalker di una Zona dimenticata, abbandonata in una capsula lunare dove gli echi del mondo civilizzato (la sequenza del fast food urbano in cui i cocktail hanno sostituito la vodka, la fabbrica militare, i ricorrenti talk show televisivi di marca putiniana) funzionano come violente allucinazioni che definiscono uno scarto definitivo. In questa bellissima no man’s land il regista russo si esilia nel suo set e con i suoi non attori cercando di filmare forse l’impossibile: la tattilità di una espressione vergine che sappia andare oltre il filmabile.

the-postmansSi tratta ancora una volta di scolpire il tempo. E Konchalovsky predilige un punto di osservazione distante ma mai freddo. Contemplativo, ipnotico, quasi completamente giocato su una dialettica tra interni claustrofobici, grandangolari ed esterni aperti al fluire della luce e dei suoni. The Postman’s White Nights riconcilia evidentemente il cinema contemporaneo russo alla grande lezione visiva di Tarkovsky, ma riprende anche la strada intrapresa dall’ultimo documentarismo poetico italiano, da cui è accomunato in particolar modo nella frammentazione drammatugica del quotidiano. Konchalovsky a modo suo rilancia un’indiscernibilità estetica tra registrazione diretta e fiction che abbatte la rigidità del formato per farsi strada facendo espressione liquida. L’inclinazione realista dei primi minuti lascia il passo in modo sussurrato ma quasi ineluttabile a una dimensione onirica che assume la distensione malinconica di un racconto di Cechov che sembra riscritto dai pochi superstiti della Terra. L’ultima ballata prima di un’apocalisse da contemplare in silenzio.

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