Uno sguardo alla terra, di Peter Marcias

Un bel documentario che indaga sul cinema del reale contemporaneo partendo da una memoria cinematografica e culturale condivisa. In tour da oggi a partire dall’Apollo 11 di Roma, stasera h 21

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Come gettare uno sguardo alla terra partendo dalla riemersione di una memoria (cinematografica)? Andiamo con ordine: L’ultimo pugno di terra è un documentario antropologico del 1965, finanziato quasi interamente dalla Regione Sardegna, nato per sostenere e favorire la rinascita economica della regione (in pieno boom economico nazionale). Il primo montaggio del film, però, non fu ben accolto dalla committenza pubblica e il regista Fiorenzo Serra (mal volentieri) tornò al montaggio per asciugare parecchi riferimenti alle dure condizioni sociali ed economiche di certe zone dell’isola. Il recente ri-montaggio del film – che rispetta la prima versione voluta da Serra – acquista pertanto l’aura di un “evento”. Peter Marcias ri-parte proprio da qui e getta oltre il suo sguardo. Perché l’evento resta il punto di partenza e mai quello d’arrivo: il giovane regista sardo sa bene che questa riemersione di una memoria novecentesca implica profondissimi quesiti storici, culturali e identitari sulla sua terra, ma sa anche che nel 2018 diventa centrale il lato puramente mediale del discorso. Il “ritrovamento”, infatti, non è solo quello di un film, ma anche quello di un dispositivo che si porta dietro un certo modo di guardare le cose. Ecco perché oltre alle immagini d’archivio Marcias monta immagini di pellicola al lavoro, di rulli che tornano a girare, di tracce di vita impresse in un’epoca lontana che ci raccontano un mondo a partire dalla loro tecnica (povera) e dal loro sguardo (ricchissimo). Un’archeologia dei dispositivi che cerca ostinatamente di farsi materia viva nella smaterializzazione digitale degli sguardi contemporanei.

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E allora: se Fiorenzo Serra raccomandava di allargare il discorso del suo documentario a un pubblico più vasto della Sardegna, Marcias segue quelle orme spirituali in un’operazione mai sterilmente museale verso il film ritrovato. Tracciandone quindi una valenza contemporanea e facendo innanzitutto “vedere” il film a occhi sparsi per il mondo, ossia a molti giovani cineasti del cosiddetto “cinema del reale” (protagonisti di una stagione magnifica) che poi intervista: da Brillante Mendoza a José Luis Guerin, da Claire Simon a Mehrdad Oskouei, da Tomer Heymann a Sahraa Karimi, da Vincenzo Marra a Wang Bing (forse il più radicale sguardo gettato sul reale nel cinema contemporaneo). Ecco che le immagini di quella Sardegna raggiungono occhi in tutto il (nostro )mondo, in un discorso antropologico e politico nel contempo. Ossia creando raccordi con la condizione femminile in Afghanistan, la povertà in certe zone dell’Iran, l’immigrazione interna in Cina, ecc… tutti discorsi ri(n)tracciati nella Sardegna del ‘64.

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José Luis Guerin e Peter Marcias

Esempio: José Luis Guerin lamenta l’estinzione odierna di quella preziosa amatorialità cinematografica, parlando di un mondo dell’audiovisivo dominato oggi (a tutti i livelli) da una voglia matta di “professionismo” tecnico. Da questo punto di vista il lavoro di regia di Marcias è molto interessante perché assorbe con estrema naturalezza l’intermedialità del panorama audiovisivo attuale: tra smartphone, pc e tanti altri schermi, il film di Serra viene guardato e commentato in una proliferazione di dispositivi. Le immagini ritrovate diventano quindi virali, senza confini di sguardo, proprio ciò che Serra sognava: portare la Sardegna ovunque e rendere universale la sua riflessione. L’inchiesta di Marcias si sposta istantaneamente al cinema del reale in questa nuova condizione mediale, riuscendo a porci domande prima di tutto con le immagini e solo dopo con le parole.

Insomma: Fiorenzo Serra nel 1965 voleva cambiare le cose con il suo film, contribuire a cambiare le condizioni di vita delle persone, rendendole migliori attraverso un impeto antropologico…. ma nel 2018 io “sono un po’ disilluso sul cambiare il mondo con i miei film” ci dice Wang Bing. Al massimo si può far pensare in maniera diversa sulle cose, “fosse anche un singolo spettatore“, ci dice Tomer Heymann. Ecco allora: questo film è pienamente connesso al nostro tempo perché tenta di gettare uno sguardo alla terra favorendo ancora un libero pensiero.

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