Uno sguardo sulla cinematografia croata

Al Roxy di Roma il cinema proveniente dall'altro lato dell'Adriatico si mette in mostra, iniziando con un film in grado di esprimere un linguaggio valido anche oltre frontiera: “Marsal” (Il Maresciallo), di Vinko Bresan

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La Croazia produce un numero di pellicole che, annualmente, si contano sulle dita di una mano. Sintomo dell'impossibilità di generare uno sforzo produttivo destinato al cinema, da parte di una nazione che sta ancora facendo i conti con il suo passato, lontano e recente: le ferite di una guerra fratricida si rimarginano con drammatica lentezza. Non ci sono, quindi, molte possibilità di conoscere il punto di vista di chi, in Croazia, ha scelto il cinema come forma di espressione artistica; un problema condiviso dalle altre repubbliche che scaturirono dalla dissoluzione dell'ex federazione (escludendo dalla considerazione il fenomeno Kusturica, che esprime un valore più singolare che rappresentativo di una intera cultura). Ed il Pula Filmfestival – divenuto mostra internazionale solo nel 2001 – da solo, non è ancora una cassa di risonanza di sufficiente portata.
Nel tentativo di dare voce a questo desiderio di valicare i confini nazionali, la Federazione delle Comunità Croate in Italia ha patrocinato "Uno sguardo sulla cinematografia croata": una rassegna di sei pellicole prodotte tra il 1996 e il 2000, che da Trieste arrivano a Roma – dove verranno proiettate fino al 29 ottobre – per poi giungere a Milano.

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Il primo film, proiettato nell'ambito di una manifestazione nata con queste premesse, assume su di sé una responsabilità gravosa: quella di essere una sorta di biglietto da visita, una presentazione che può influire notevolmente sulla prosecuzione di un rapporto di conoscenza. Marsal (Il Maresciallo), di Vinko Bresan, era chiamato a dimostrare che il cinema croato – il cinema di una nazione da poco uscita dalla guerra – è in grado di esprimere un linguaggio valido anche oltre frontiera. E ci si trova, infatti, di fronte ad un film degno di tante aspettative, perché parla allo stesso tempo – e con la leggerezza propria della commedia – di un passato ancora vivo, di un odio per troppo tempo ingoiato, della speranza ancora riposta in ideali creduti immortali, di un mondo che cambia troppo in fretta, di vecchi e nuovi furboni, della rivoluzione che – si sa – è roba per giovani (dentro): temi universali, vicini a tutte le razze, religioni, ideologie, toccati senza nemmeno sfiorare la retorica che, in queste occasioni, è perennemente in agguato. Il pretesto del racconto, questo sì, è tutto "di casa", ed è ispirato ad una storia vera.
In una minuscola isola dell'Adriatico, appena al largo delle coste croate, imperversa il fantasma del Maresciallo Tito, le cui apparizioni terrorizzano gli abitanti. Alcuni di questi, però, non solo non hanno timore: addirittura gioiscono, per il ritorno della guida spirituale, economica e militare della grande Yugoslavia. Ad indagare sugli strani fatti viene inviato Stipan, un giovane poliziotto originario dell'isola, che verrà sopraffatto dal susseguirsi di eventi sempre più inafferrabili da una mente razionale.

Bresan – nato a Zagabria, classe 1964 – ha visto con i suoi occhi la disgregazione della Federazione; la Terza Via di Tito, il comunismo ecumenico e paternalista, le follie dell'apparato militar-burocratico, riecheggiano negli angoli del film come il suono – lontano secoli – dei discorsi del Maresciallo. Ma il suo film è anche lo specchio di un'Europa orfana della contrapposizione tra blocchi; che al rifiuto dei diktat dei partiti comunisti – con il loro pesante carico demagogico e illiberale – riesce a sostituire solo le imposizioni sottili ed insinuanti del liberismo economico professato dai "nuovi" partiti – per carità, non partiti, ma leghe o alleanze! – sempre pronti a chiedere un atto di responsabilità alle classi lavoratrici per ottenere l'appoggio alle loro politiche economiche di disfacimento del welfare. Il profilo dei personaggi di Bresan è estremamente caratterizzato (traccia, questa, dei suoi trascorsi di regista teatrale): contrapponendo il nostalgico Marinko, irriducibile partigiano comunista, all'affarista Luka, sfacciato neocapitalista rampante, il regista croato riempie il film di segnali, di simboli di un passato decaduto; li raccoglie in una cantina nascosta e polverosa, li deride con impeto iconoclasta, salvo poi trasformare un enorme martello – staccato da un'altrettanto smisurata falce – nello strumento più diretto che il redivivo Maresciallo Tito ha a disposizione per raggiungere la libertà. Ed alla fine, il fiero dominatore si allontana, solitario, su una barca che – lentamente – si dirige verso il sol dell'avvenire. Ma, purtroppo, si tratta solo di follia.

Bresan – documentarista, cortista, regista teatrale e televisivo – con Marsal ha raggiunto una certa visibilità internazionale, grazie ai premi conquistati nel 2000 a Berlino, Karlovy Vary e Pula. Senz'altro si nota la sua tendenza ad assumere certi canoni propri del linguaggio televisivo e dell'estetica del videoclip – in particolar modo l'effetto straniante degli obiettivi a focale ridotta; come pure non si può definire perfetto il ritmo della successione degli eventi (fondamentale nel genere brillante), che ondeggia marcatamente nella seconda parte del film; ma si ride, e si pensa: e questo, per un cinema che vuole farsi conoscere, è un biglietto da visita di tutto rispetto.

 


Titolo originale: Marsal
Regia: Vinko Bresan
Sceneggiatura: Ivo Bresan, Vinko Bresan
Fotografia: Zivko Zalar
Montaggio: Sandra Botica
Musica: Mate Matisic
Scenografia: Mario Ivezic
Costumi: Vesna Plese
Interpreti: Drazen Kuhn (Stipan), Linda Begonja (Slavica), Ilija Ivezic (Marinko), Ivo Gregurevic (Luka)
Produzione: Ivan Maloca, Ljubo Sikic
Origine: Croazia, 1999

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