Upstream, di Xu Zheng

Traccia un duro ritratto degli struggimenti e delle ingiustizie che il lavoratore comune cinese deve quotidianamente ingoiare. Ma sul finale ridimensiona il suo afflato polemico. Dal Far East 2025

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OPEN DAY FILMMAKING & POSTPRODUZIONE: 23 maggio

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BORSE DI STUDIO per LAUREATI DAMS e Università similari

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SPECIALIZZAZIONI: la Biennale Professionale della Scuola Sentieri selvaggi

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Chi ha familiarità con l’industria cinematografica della Cina, e in particolare con le tendenze su cui si stanno ultimamente fondando molti dei prodotti concepiti per il consumo di massa interno al paese (compresa Hong Kong), non dovrebbe rimanere sorpreso dal processo di mitizzazione che questo Upstream compie nei confronti del lavoratore comune cinese, equiparato – quasi paradossalmente – ad una tragica figura superomistica soffocata però da incombenze societarie troppo grandi per poter essere, solo in apparenza, neutralizzate. Sulla scia di lavori come Shock Wave o Nice View (2022), il film che Xu Zheng ha appena presentato al 27º Far East Film Festival ragiona ossessivamente sulla connessione uomo-società, sui risvolti drammatici che un mercato ultracompetitivo come quello del gigante asiatico genera sulla quotidianità del singolo individuo, per esaltare – ci verrebbe da dire senza alcuna soluzione di continuità – l’eroismo quotidiano di una particolare frangia di lavoratori cinesi, capaci non tanto di trascendere le anomalie del sistema in cui sono brutalmente immersi, quanto di affrontarlo: fino ad adeguarsi alle sue soffocanti logiche.

Da questo punto di vista, sembra qui suggerirci Xu Zheng, nessuno tra coloro che compone il cuore della massa lavoratrice della nazione, può risultare indispensabile alla luce del dogma dell’ultracompetitività che alberga nel panorama occupazionale del paese. Lo stesso protagonista di Upstream, Gao Zhilei (a cui presta il volto il regista), viene liquidato senza mezzi termini da una grande azienda high-tech per non aver raggiunto i risultati sperati, nonostante l’uomo fosse un programmatore di enorme talento ed abnegazione. In quanto quarantacinquenne, però, è considerato un’anomalia agli occhi dei manager delle compagnie cinesi, desiderosi di reclutare del personale giovane, dal momento che le nuove generazioni sarebbero – a detta loro – più apertamente disposte a sopportare carichi di lavoro eccessivi, pur di ottenere un impiego (relativamente) sicuro. Ma Gao ha alle spalle un famiglia di cui prendersi cura: e in preda alla disperazione, si unisce ad una start-up di consegne a domicilio, assaporando sulla sua pelle la dura vita del rider, soffocato dai ritmi stringenti della metropoli e di quel sistema iper-connesso – stabilito dagli algoritmi di un’app – che scandisce, in ogni istante, l’esistenza di chi ogni giorno compie in Cina questo gravoso mestiere.

L’enorme carico di consegne da effettuare nel minor tempo possibile, unito alla noncuranza che i cittadini-clienti presentano sistematicamente nei confronti dei rider, offre già di per sé il fianco al cineasta per tracciare un ritratto duro e crudo non solo degli struggimenti quotidiani a cui è assoggettata questa categoria di lavoratori, ma anche delle ingiustizie che il protagonista di Upstream (e i suoi pari) devono loro malgrado ingoiare, pur di non ricevere “cattive recensioni”, che si traducono puntualmente in una spietata decurtazione del compenso mensile. Ed a restituire radicalità al commento sociale che Xu Zheng pone qui al centro del suo film, interviene proprio l’oculatezza con cui il cineasta inscena la frenesia della metropoli, quasi la città arrivasse a soffocare nelle sue maglie stringenti la soggettività stessa degli individui, incapaci di rispondere alle esigenze ultracompetitive della società e dell’intero mercato, e di affrontare i disagi che ne vengono irrimediabilmente fuori.

Il vero problema di Upstream, però, sta tutto nelle riflessioni che propone nel suo terzo atto, dove si assiste non solo ad un rovesciamento colossale – ma non “paradossale”, e ne vedremo il motivo – della condizione umana di questi rider, ma anche a quella mitizzazione del lavoratore cinese comune cui si accennava in partenza. Pur di non incontrare la scure della censura, evitando così di interrogare direttamente le storture del mondo del lavoro interno alla nazione, Xu Zheng ridimensiona improvvisamente l’afflato polemico del racconto, fino a puntare l’attenzione sulla sola resilienza di questi individui, e sulla loro attitudine ad assuefarsi a logiche di per sé ingiuste, con cui si “decide” di coesistere in maniera addirittura virtuosa. Non è la prima volta, in realtà, che un lungometraggio sinico propone un’inversione tematica simile, anche per motivazioni riguardanti il mercato cinematografico nazionale, e il successo – spesso vertiginoso – che le storie rassicuranti ed edificanti incontrano presso il pubblico cinese di massa. Le cui “esigenze” sembrano aver condizionato, fin troppo, lo sguardo e le scelte artistiche del regista.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

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