Veleno, di Hugo Berkeley e Pablo Trincia

Aggiornamento a serie tv del popolare podcast di Pablo Trincia: oltre ad aggiungere tasselli all’inchiesta è una riflessione sul valore della verità e la non oggettività delle immagini. Prime Video

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«Vent’anni fa, in provincia di Modena, sedici bambini tra i comuni di Massa Finalese e Mirandola furono allontanati per sempre dalle loro famiglie, accusate di far parte di una setta di satanisti pedofili. Ma questa storia, proprio come le vecchie audiocassette, ha due lati. In quale dei due si nasconde la verità?»

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Era questo l’incipit di Veleno, un podcast a cura di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli che nel 2017 riportava alla luce un fatto di cronaca avvenuto alla fine degli anni ’90, conosciuto ai più come il caso dei “Diavoli della Bassa modenese”.

Ad oggi Veleno è ancora uno dei podcast più ascoltati sulle piattaforme streaming, forma di intrattenimento che — nell’era della bulimia iconografica — ripone le sue forze proprio sull’assenza di un corollario visivo a sostegno della storia.
Eppure, la tentazione di dare un volto ai genitori e agli ex bambini coinvolti in questa assurda storia era troppa. E forse il passaggio all’audiovisivo si è reso più urgente proprio perché, durante i 7 episodi del podcast, la vera svolta nelle indagini parallele condotte da Pablo Trincia arrivava esattamente quando scopriva un archivio di VHS, ritagli di giornali, fotografie, conservato meticolosamente in soffitta dalla signora Oddina, madre adottiva di uno dei bambini coinvolti nella vicenda.


Se il racconto orale di un avvenimento può conferire ai fatti un alone leggendario, suscitando nell’ascoltatore leciti dubbi di veridicità e lasciando a quest’ultimo la possibilità di credere o meno a ciò che ha ascoltato, l’immagine può essere ben più spudorata nello spiattellare in faccia la realtà.
Allora ecco comparire su Amazon Prime un nuovo riadattamento del podcast, dopo che Trincia ne aveva già ricavato un libro-inchiesta omonimo, edito da Einaudi.

Un’Emilia di strade ordinate e campi a maggese ricostruiscono un immaginario a metà tra l’operosità di Bertolucci e la paranoia di Vasco Brondi, un’Italia dei cento campanili in cui il parroco è sempre il fulcro della socialità e i fatti del paese vengono spiati dalle tapparelle.

In Veleno serie tv la nebbia disorienta, toglie i contorni alle cose e le rende impalpabili. Non si ha più idea dei confini tracciati perché ogni pista rischia sistematicamente di essere compromessa, i punti di vista collidono tra loro al punto che la sola direttrice che è possibile seguire è invero una domanda: «chi è che decide cos’è la verità?».

L’immagine, che inizialmente era venuta in soccorso dell’ascoltatore/spettatore per aggiungere appigli a cui poter agganciare le proprie impressioni sui fatti, ben presto si fa ambigua, polivalente come ogni elemento riguardante la maledetta storia dei Diavoli della Bassa modenese.

Le vecchie riprese in VHS sono al tempo stesso il sinonimo di calore familiare — quando recuperano il ricordo delle feste passate dal piccolo Dario a casa della sua prima famiglia adottiva — oppure di efferate violenze, raccontate a favore di macchina dai bimbi agli psicologi e agli inquirenti che lavorarono al caso.

Il recupero delle immagini di repertorio, del found footage, dei servizi televisivi è di fatto una grammatica in auge già da tempo e che probabilmente in Italia ha avuto il suo apice con la serie Netflix SanPa: luci e tenebre di San Patrignano.

A differenza del lavoro incentrato su Vincenzo Muccioli e la “sua” comunità, però, in Veleno il ruolo dei mass media nel metabolizzare i fatti e renderli opinione comune è evidentemente secondario: se i creatori di SanPa avevano potuto attingere a un repertorio pressoché sconfinato di interviste, editoriali, maratone televisive dedicate alla comunità e, ancor più sulla figura cristologica di Muccioli, i riflettori su Mirandola e Massa Finalese sembrano accendersi ben più di rado. Quasi si vergognassero di dover dare luce a una vicenda dai contorni grotteschi, in cui ogni vittima è potenzialmente carnefice, e non importa se il soggetto sia figlio, genitore o istituzione.

In SanPa i dubbi erano di natura etica: «per fare del bene puoi usare qualunque metodo?». In Veleno invece gli interrogativi diventano di natura ontologica: «Chi è che decide che cos’è la verità?». Non più una riflessione sul mezzo, bensì una riflessione sull’essenza stessa del mezzo. Indagine, anche questa, che probabilmente non vedrà mai alcuna risposta.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3 (4 voti)
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