VENEZIA 59 – Esseri invisibili: "Dirty Pretty Things", di Stephen Frears
Frears non cede alle derive "sociali" della storia e lascia muovere i suoi protagonisti dentro percorsi soggettivi, dove le storie individuali non assurgono a metafora del mondo. E il film si fa godere per quegli attimi fuggenti dove Okwe e Senay si incontrano, si sfiorano, immersi dentro un contenitore londinese che sembra tanto più grande di loro
Ultimissimi giorni del Festival qui al Lido, e sempre più si ha l'impressione forte e decisa di un grande "disagio" da parte di molti critici e addetti ai lavori, come se si fosse "spiazzati" da questa anomala e tutto sommato riuscita Mostra dehadelniana, ma non fosse possibile dirlo in giro. Ed ecco quindi molti nostri "colleghi" continuamente cercare conferma della propria insoddisfazione, come avvolti da una necessità di trovare negli altri un appoggio alle loro disturbate visioni.
E' l'aria che tira qui al Lido, dove i film non piacciono o piacciono pregiudizievolmente, dove regna come un ordine non scritto che impone di parlare male di questa Mostra, di questo cinema, di questo Direttore, di questi politici, ecc…. E nessuno guarda più veramente i film. E pellicole che in altri anni sarebbero magari state apprezzate vengono liquidate nervosamente, come è accaduto per due trai più bei film visti, Vendredì soir della Claire Denis e Julie Walking Home di Agnieszka Holland. Non si vedono più i film e si giudicano gli autori, come una critica enciclopedica che prima di entrare in sala si ripassa la filmografia del regista…
E allora ecco che di fronte a un cineasta come Stephen Frears ci si perde definitivamente. Cineasta discontinuo, che alterna quasi matematicamente un film di notevole spessore a opere senz'anima (prendete la sua filmografia al contrario e alternate un film si e uno no…e scoprirete che il metodo funziona…), ha presentato qui a Venezia Dirty Pretty Things, una curiosa commedia- thriller – dramma – mèlo, girata in Inghilterra e targata Miramax, interpretata da Audrey "Amelie" Tautou, e una bella scoperta che va sotto il nome di Chiwetel Ejiofor.
Dirty Pretty Things è la storia di due "invisibili", due diverse solitudini, quella di Okwe (Chiwetel Ejiofor) giovane medico nigeriano che vive con un doppio lavoro di tassista e portiere di notte in un albergo, e Senay (Audrey Tautou), immigrata turca in attesa del permesso di soggiorno. I due dividono una stanza in orari diversi ma dopo un po' Okwe deve lasciarla perché l'ufficio immigrazione tiene sotto controllo la ragazza che non può né lavorare ufficialmente né subaffittare l'appartamento assegnatole. Le vite dei due scorrono parallele, e si innestano solo quando Okwe scopre nell'albergo dove lavora dei curiosi movimenti di "corpi", un traffico candestino di organi gestito direttamente dal direttore Sneaky (Sergi Lopez).
Frears non cede troppo alle derive "sociali" della storia (immigrazione, traffico di organi, prostituzione, razzismo, ecc…) e lascia invece muovere i suoi protagonisti dentro percorsi soggettivi, dove le storie individuali non assurgono a metafora del "mondo" e neppure vogliono rappresentare un momento di cinema civile e di denuncia. E il film si fa godere per quegli attimi fuggenti dove Okwe e Senay si incontrano, si sfiorano, immersi dentro un contenitore londinese che sembra tanto più grande di loro… Ne viene fuori una tenerissima storia d'amore, senza né il lieto nè il cattivo fine, che si muove lungo gli argini di una storia a tratti persino hitchcockiana (la scena dei detective dell'ufficio immigrazione in albergo che attendono l'arrivo di Senay al lavoro per smascherarla è costruita con una grandissimo senso della suspense) e, in altri momenti, di triste affresco metropolitano. Ma alla fine prevale l'attenzione per i "corpi" dei protagonisti, in un film che sui corpi opera in continuazione, sin dalle prime scene con il giovane medico alle prese con i membri maschili infiammati da malattie e da lui curati, con il cuore umano ritrovato dentro un bagno dell'albergo, ai reni venduti per ottenere un passaporto, ecc….