VENEZIA 59 – Sotto il segno della Miramax: "Frida" di Julie Taymor e "Full Frontal" di Steven Sodebergh
La Miramax negli ultimi anni sembra confezionare programmaticamente opere che seguono un preciso "dogma" narrativo, fotografico e scenografico. Con "Frida" e "Full Frontal" la società dei fratelli Weinstein si espande nel set messicano in una ricostruzione biografica nel primo e con un'apparente costruzione da cinema indipendente nel secondo
C'è un marchio produttivo che tende ad un'omologazione dello sguardo. Sotto il segno della Miramax, che nel corso degli anni sembra confezionare programmaticamente opere che seguono un preciso "dogma" da un punto di vista narrativo, fotografico e scenografico, sono stati presentati Frida di Julie Taymor in concorso e Full Frontal di Steven Sodebergh nella sezione "Controcorrente". In un certo senso opere diverse in cui la Miramax si espande nel set messicano in una ricostruzione biografico-storica nel primo caso e alle prese con un'apparente costruzione da cinema indipendente nel secondo.
L'intellettualismo all'europea di Steven Soderbergh in Full Frontal sfocia nel peggior fellinismo d'accatto alla 8 e mezzo; nell'opera, anche se il regista riminese non viene mai citato, c'è proprio l'itinerario del processo formale che porta a quel cerebrale trasporto "dal set al set", con presuntuose dichiarazioni a metà tra la libertà Nouvelle Vague e il metacinema di Godard (con tanto di locandina di Il disprezzo). Se il giovane cineasta statunitense aveva già posto dei dubbi circa la sincerità del suo cinema, sin dal troppo acclamato esordio di Sesso, bugie e videotape, Full Frontal spinge all'estremo quella coralità troppo calcolata di l'Inglese e Ocean's Eleven dove però non sempre l'azione produce ritmo. Ambientato a Los Angeles nell'arco di 24 ore, Full Frontal è "un film sul film" – con la continua duplicità tra l'attore e il personaggio che interpreta – che si sofferma su diversi personaggi: Linda è una massaggiatrice che cerca l'uomo giusto; Carl ama sua moglie Lee; Lee vorrebbe farsi amare da Calvin; Calvin, che interpreta il ruolo di Nicholas, personaggio che nel film che si sta girando è innamorato di Francesca. La vita di tutti questi protagonisti ruota comunque attorno alla figura del produttore Gus. Soderberg costruisce deliberatamente sin dall'inizio il proprio inganno, producendo titoli di testa falsi per lasciare entrare dentro un'altra storia che viene mostrata nell'atto stesso del proprio produr/si. Ma alla fine, con la presenza di Brad Pitt e Julia Roberts già interpreti di Ocean's Eleven o della fugace apparizione di Terence Stamp protagonista di L'inglese, si ha l'impressione che Soderbergh non solo voglia urilizzare queste star per dei cameo autocelebrativi ma che addirittura si serva (soprattutto nel caso di Stamp) di scarti di pellicola preesistenti, di materiale da riutilizzare secondo un film che si compone di frammenti ma che ha la pretesa di costituire la linea teorica di un metodo Soderbergh del quale però sfugge l'assunto principale.
In concorso è stato anche proiettato The Magdalene Sisters di Peter Mullan, opera ambientata nell'Irlanda del 1964 che si sofferma soprattutto sulla storia di quattro ragazze rinchiuse dai propri genitori (dopo che avevano avuto un rapporto sessuale e, in alcuni casi, partorito senza consenso) in uno dei conventi Magdalene gestiti dalle Sorelle della Misericordia per conto della Chiesa Cattolica. Mullan, già regista di Orphans si appropria del realismo alla Loach portandolo però alle estreme conseguenze. Un cinema che vuole essere volutamente disturbante e sgradevole, ma che invece non mostra l'evento ma tende solo ad esibirlo. Realismo costruito quindi, di presunta oggettività, ma violentementa manipolato. Il "realismo tragico" british nel suo stato più agonizzante.