VENEZIA 60 – "Intolerable Cruelty" di Joel Coen (Fuori concorso)

Il meccanismo prevale sempre sulla storia. Nel film non si vedono personaggi veri ma piuttosto la scrittura che li ha costruiti. Una scrittura sempre più invadente, appariscente, che dietro la sua apparente semplicità nasconde un narcisistico intellettualismo.

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Continua, con disarmante costanza, il lavoro di rivisitazione dei generi nel cinema dei fratelli Coen. Dal noir (L'uomo che non c'era) alla commedia alla Capra (Mister Hula Hoop), alle descrizioni del mondo hollywoodiano (Barton Fink) al gangster-movie (Crocevia della morte), con Intolerable Cruelty viene riproposta la guerra tra i sessi che ha costituito il cuore della commedia hollywoodiana soprattutto tra gli anni Trenta e Quaranta. Ereditiere bizzose, fessi e ricconi gentiluomini sono i personaggi che ruotano attorno all'avvocato divorzista di Los Angeles Miles Massey (George Clooney) che è riuscito ad arrricchirsi e ad avere successo anche vincendo cause impossibili. Tra le sue vittime c'è anche Marylin Texroth (Catherine Zeta-Jones), ex-moglie di un ricco imprenditore immobiliare e inguaribile dongiovanni, che sposa intenzionalmente uomini facoltosi per poi separarsene e ottenere così gran parte del loro patrimonio dopo la causa di divorzio. Ma tra Miles e Marylin scatta l'attrazione. È amore vero o l'avvocato è una delle prossime vittime della donna? Intolerable Cruelty esalta così il gioco dell'inganno, in cui si ha sempre il sospetto che i personaggi siano altro da quello che appaiono. Il meccanismo della simulazione, lo scontro acceso uomo/donna giocato su dialoghi brillanti e sull'accentuazione dei dettagli esibiti in chiave comica (i denti di Miles, i contratti prematrimoniali, gli arredi delle abitazioni eleganti dove vivono e donne divorziate amiche di Marylin) sono tra gli elementi principali di Intolerable Cruelty (Joel regista e sceneggiatore, Ethan sceneggiatore e produttore) in cui il cinema dei Coen sembra guardare a quella frenesia delle commedie di Gregory La Cava, Leo McCarey e, in misura minore, richiamare anche quell'eleganza di Preston Sturges ed Ernst Lubitsch. I riferimenti nei confronti della Hollywood classica diventano però pura esibizione cinefila, operazione di plagio mascherata dalla deformazione grottesca sia dei protagonisti sia degli ambienti e dalla accentuazione dei colori della fotografia di Roger Deakins (consueto collaboratore dei Coen) che accentuano la dimensione iperrealista. Dietro la struttura della "commedia legale" dunque, un set sempre più di plastica, dove ogni immagine pesa oltre il necessario (la scena del matrimonio in cui Miles e Marylin si sposano), dove il lavoro sullo spazio, fino a Il grande Lebowski decisamente più consapevole, è subordinato invece a un'allestimento scenico dove anche la minima immagine sembra ridondante. Il meccanismo prevale sempre sulla storia. In Intolerable Cruelty non si vedono personaggi veri ma piuttosto la scrittura che li ha costruiti. Una scrittura sempre più invadente, appariscente, che dietro la sua apparente semplicità nasconde un narcisistico intellettualismo. Intolerable Cruelty è il segno di un cinema che si è imbolsito con gli anni e che lascia intravedere il sospetto come il cinema dei Coen, tranne qualche grande film (Crocevia della morte, Fargo), porti in sé questa cinefilia in cui tutti i giovani appassionati di cinema possano dire ad ogni inquadratura "Oh, questo è Capra!", "Oh, questo è Preston Sturges!", "Oh, questo è Howard Hawks!", "Oh, il noir!", "Oh, la commedia sofisticata!" per poter mascherare invece la mancanza di una vera identità. Intolerable Cruelty è l'esempio di un gioco sul cinema vacuo e snob, senza cuore, presuntuoso e senza la minima adesione a quell'artigianalità che ha fatto grande la commedia americana. Il film è troppo chic per poter aderire a forme di black comedy, troppo orientato a guardarsi allo specchio per avvicinarsi a quell'autentica crudeltà che si nasconde dietro la commedia come in La guerra dei Roses di De Vito. Il movimento, l'energia, l'euforia sono completamente assenti in un'opera tutta di testa. Forse in mano a un Michael Hoffman, un Andrew Bergman o a un Ivan Reitman, Intolerable Cruelty sarebbe stato un altro film. Più semplice, più dinamico, più popolare.

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