VENEZIA 60 – "Raja", di Jacques Doillon (Concorso)

Doillon insiste su qella tendenza a catturare l'improvvisazione, a inquadrare tensioni dopo aver appositamente surriscaldato i propri personaggi che da sempre costituisce uno degli elementi del suo cinema migliore. Il suo metodo con "Raja" però, dietro l'apparente istintualità e immediatezza è come programmaticamente manovrato

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Quello di Doillon è un cinema che continua a lavorare con i corpi degli attori, a farli interagire in continui cortocircuiti di movimenti e sguardi che li mutano e li ricompongono. Con Raja il luogo di questo confronto/scontro è sempre lo spazio limitato, quello dell'abitazione di un ricco occidentale, Frédéric, che decide di assumere come domestica una delle ragazze del luogo, Raja, che ha 19 anni ed è orfana. Comincia così un lavoro dello sguardo quasi fisico di Doillon, che lavora sui volti dei protagonisti, da quello malinconico e rugoso di Frédéric a quello irregolare e cicatrizzato di Raja. Nel film è come se il cineasta francese costruisse forme temporanee di attrazione/repulsione, di seduzione/rifiuto, con stacchi di montaggio volontariamente improvvisi, con inseguimenti/fughe dai personaggio in uno luogo/prigione che frantuma ogni connotazione geografica. Doillon insiste su qella tendenza a catturare l'improvvisazione, a inquadrare tensioni dopo aver appositamente surriscaldato i propri personaggi che da sempre costituisce uno degli elementi del suo cinema migliore. Il metodo-Doillon con Raja, dietro l'apparente istintualità e immediatezza è come programmaticamente manovrato. L'uso insistito del controcampo con gli sguardi tra i due protagonisti come espediente per poter oltrepassare la barriera linguistica che li separa, i dialoghi tra Frédéric cn le due donne in cucina e la loro diffidenza nei confronti della ragazza, il licenziamento di Raja o la sua rabbia nei confronti della ragazza a cui Frédéric ha dato il suo costume da bagno, diventano però facili e insoliti stratagemmi narrativi dietro il quale il regista francese vuole raccontare la vicenda di un incontro interrazziale con il sospetto di un atteggiamento decisamente snob. Il metodo non diventa allora il segno riconoscibile di uno stile ma soltanto il mezzo per filmare le fasi di una distruzione emotiva che, dietro la sua apparente fisicità, appare come già scritta, come già deliberatamente organizzata.

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