VENEZIA 60 – "Vodka Lemon", di Hiner Saalem (Controcorrente)

Piacevole sorpresa di fine Festival. Da terre lontane e dimenticate sbarca al Lido l'opera kurda di un regista che muove i suoi primi passi a Parigi. Girato in Armenia, il film riecheggia la magica attitudine alla sopravvivenza.

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Già la storia personale dell'autore è una potenziale sceneggiatura. Nato ad Akkra, nel Kurdistan iracheno, scappa in Siria per poi trasferirsi per un periodo a Firenze, dove comincia l'attività di ritrattista. È a Parigi che comincia l'attività di regista: realizza tre lungometraggi, tutti inediti in Italia.  Non vede il suo Paese da anni e le sue suggestioni le ha ritrovate in una terra vicina. Il film riecheggia la magica attitudine alla sopravvivenza di popoli in cui l'Unione Sovietica aveva sottratto la libertà, ma non il resto. Gli armeni sembrano possedere una mistica vocazione alla sofferenza. La realtà fatiscente si tramuta da tragedia a farsa, elementi indispensabili che contraddistinguono questo modo di fare cinema. Prima sequenza: un' anziano flautista è trainato su una brandina-slitta da un furgoncino sulla neve che copre a perdita d'occhio il paesaggio. Si cava la dentiera e accompagna con il suo strumento una sepoltura. È l'unica scena in cui si pigia sull'acceleratore. Il resto è sublimazione della staticità forzata. Il bianco predomina, copre, blocca le vie di fuga. Hamo, sessantenne vedovo, vive con il figlio alcolista, riceve una pensione da fame. Possiede un armadio, una televisione e una divisa militare. Ben presto dovrà disfarsene per soldi. I suoi averi arrederanno la casa di novelli sposi. È arte del riciclaggio originato dalla chiusura geopolitica. Un giorno forse quei beni passeranno in altre stanze. Hamo trascorre il suo tempo al cimitero, un pugno di monoliti di marmo nel deserto dell'esistenza, e all'ufficio postale, per ritirare lettere che l'altro figlio spedisce dalla Francia. Mai un soldo in quelle buste, anzi, solo richieste contrarie. Unici scambi con il resto del mondo, dollari e vodka lemon. Un baracchino "bibitaro" è la dogana di passaggio verso il lontano occidente. L'universo è imploso, lo spazio sterminato si compatta. Gli esterni alzano immaginari confini di poesia e iperrealismo. In campo lunghi, uomini seduti sul ciglio della strada non sono mai soli: bagliori di speranza come impronte sulla neve o come l'uomo a cavallo che attraversa le immagini, corriere di un mondo che resiste.       

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