VENEZIA 61 – "Ambasadori cautam patrie", di Mircea Daneliuc (Orizzonti)

Il cinema rumeno è veramente poco conosciuto, essendo spesso considerato come il parente povero delle cinematografie più prestigiose del vecchio blocco dell'est. Daneliuc n'è sicuramente uno dei massimi esponenti. Il suo cinema è un'angosciante tensione del ridicolo che si nutre di se stesso. Folgorante…

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Il cinema rumeno è veramente poco conosciuto, essendo spesso considerato come il parente povero delle cinematografie più prestigiose del vecchio blocco dell'est. Daneliuc n'è sicuramente uno dei massimi esponenti. In attesa della personale completa che Trieste organizzerà l'anno prossimo, abbiamo goduto a Venezia ad uno spettacolo sregolato e sconvolgente. Uno stato africano sotto dittatura è in una situazione economica critica. La sua ambasciata a Bucarest versa in condizioni penose. L'ambasciatore è deciso ad attrarre l'attenzione dei mass-media. Il suo Paese non ha petrolio, non commercia armi e quindi è destinato all'emarginazione. La sede diplomatica si trasforma in "quartier generale" per tossicomani che spacciano e loschi figuri. Grottesca parodia della rivoluzione del dicembre 1989, quando i rumeni hanno invaso la capitale. Qualcosa di simile all'atmosfera di quei tempi: la stessa furia, lo stesso desiderio di distruzione, gli stessi simboli nazionali. Da Senatorul Melcilor (Il senatore delle lumache), presente a Cannes nel 1995, sono passati otto anni perchè Daneliuc è scomodo e va ostacolato: i ladri e i criminali sono onorevoli uomini d'affari. Non c'è un vero e proprio modo di entrare in argomento nelle opere di Daneliuc, come capita con l'altro genio Lucian Pintilie: nessuna scena d'esposizione o prologo che lasci allo spettatore il tempo di abituarsi ai personaggi e al contesto. Si è invece immediatamente catapultati nel bel mezzo di un sistema socio-politico di cui s'ignorano le regole di fondo e che non t'invita certo a farne parte. Si penetra così come se si compisse un'effrazione in un universo privo di senso, popolato da folli che hanno preso il potere. Anche in questo film, apparentemente senza riscatti, si salva la libertà delle presenze fisiche conservando sempre un posto da osservatore beffardo. È cinema entomologico, come quello dello scomparso Alexandru Tatos: accresce la sensazione tenace di trovarsi bruscamente, senza esservi stati invitati, in terra rumena. È uno squarcio di vita piuttosto che un racconto che progredisce verso una tradizionale drammaticità: dopo una sconvolgente cavalcata, la macchina da presa sembra attaccarsi alle costole per poi abbandonare il (mal) capitato improvvisamente dopo qualche istante… La normalità è delirante: delirio della beffa? Delirio passionale? Delirio politico? Angosciante tensione del ridicolo che si nutre di se stesso.  

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