VENEZIA 61 – "Come Back Africa", di Lionel Rogosin (Eventi Speciali)

Tra i numerosissimi titoli del Lido (a quanto pare, troppi per le forze logistiche a disposizione) Venezia ha riportato alla luce un gioiello d'assoluto valore: il primo film "eretico" di denuncia dell'apartheid. Girato nel 1958, resta un capolavoro unico di bianco (contro) nero.

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Lionel Rogosin, un bianco di New York (è morto quattro anni fa), "ritorna" a Venezia con il suo capolavoro. Proprio nel 1959 Come Back Africa mostrava agli occhi occidentali la vergogna bianca e l'esplosione nera di vitalità antagonista e clandestina di un autore sempre schierato per la denuncia sociale. Grazie al restauro della Cineteca di Bologna, la pellicola "segreta" risplende a dieci anni dal Sudafrica libero. Il direttore della Mostra Marco Muller ha dato spazio, per l'occasione, ad altri registi di questa terra: Darrell James Roodt (il primo a realizzare nell'86 un film, Place of Weeping, che uscì sia nelle sale bianche che nere), Ramadam Suleman, cartoonist d'avanguardia (autore anche della sigla della Mostra), che ha presentato la terza parte del lungo serial di successo, Yizi Yizo.

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Sceneggiato con l'allora giovane scrittore esulo Lewis Nkosi, Come Back Africa, è un affresco neorealista sulle "townships" nere, luoghi di violenze e di crimini: il film è un dei primi documenti sulle terribili condizioni di vita di uomini con la pelle di un altro colore. Protagonista è il giovane zulu Zacharia, "pedinato" nella povertà e segregazione razziale. Ma questo splendido docudrama è carico di anime nere, come il gruppo di intellettuali iconoclasti (tutti amici di Mandela) che danno vita a una delle scene più significative girata nella taverna clandestina privata (shebeen) dove ci si interroga sulla politica, la società, la filosofia. Proprio in quelle sequenze partecipa una giovanissima "mama Africa" Miriam Makeba, che regala due perle canore integrali per "giustificare" l'ibridismo tra reportage e finzione (il film fu spacciato per musical per ottenere i permessi per le riprese). Splendido esempio di cinema diretto e a soggetto, deambulante tra Shadows di Cassavetes e Umberto D. di De Sica. D'altronde, Rogosin aveva avviato (insieme ai film di Sdney Meyers o di Morris Engel) l'ondata new american cinema, con il suo On the Bowery (1956). Casualità, spontaneità, frammentarietà, impurità, poco a poco divennero veri strumenti di espressione originale attraverso i quali un certo Jonas Mekas volle ritrovare quell'area di libertà creativa che la beat generation già sperimentava. Note dell'autore: "Catturare la realtà in modo spontaneo e darle vita comporta ovviamente qualcosa di più che riunire persone che appartengono ad un certo ambiente sociale. Deve essere permesso loro di essere se stesse, di esprimersi a proprio modo ma in accordo con le astrazioni e i temi che tu, che sei il regista, devi essere capace di vedere in loro…" Cinema (di) verità e… riconciliazione per linguaggi, espressività e implodenti mescolanze sovversive.                  


    

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